Tuttolibri, 15 aprile 2023
Greta Garbo, tirchia e incapace di amare
Si possono scrivere, nell’epoca in cui conosciamo minutaglie della vita dei personaggi pubblici, biografie di personaggi vissuti in epoche nelle quali si poteva non far saper niente di sé per anni? Ci ho pensato per tutta la lettura di Garbo, il libro in cui Robert Gottlieb – già, tra le altre cose, direttore del New Yorker – ricostruisce la vita di Greta Gustafsson, per tutti noi la Garbo, con le poche tracce che lascia la vita di una nata nel 1905.
Due cose, della Garbo, le sappiamo tutti. Gli slogan – «La Garbo parla!» e «La Garbo ride!» – con cui furono lanciati il suo primo film non muto (Anna Christie) e il suo primo film comico (Ninotchka). E che fece il suo ultimo film a trentasei anni, e poi si ritirò dalla vita pubblica. Considerato che morì a ottantacinque, fanno quasi cinquant’anni di vita privata di quella che è comunque riuscita a rimanere una delle donne più famose del mondo. A marzo il New York Times, sotto il tragicomico titolo «Le influencer sono niente in confronto alla Garbo», notava come i gioielli che si vedono sulle passerelle cinematografiche in questa stagione ne copino ancora l’estetica – trentatré anni dopo la sua morte.
I paragoni che vengono fatti hanno sempre qualcosa di impreciso. Sì, anche Mina si è ritirata dalle apparizioni pubbliche, ma ha continuato a incidere dischi. Sì, anche Salinger si è ritirato sia dalla vita pubblica sia dalla pubblicazione delle sue opere, ma il lavoro di Salinger non era mai stato apparire. «Avevo fatto abbastanza facce», risponde la Garbo a David Niven quando lui le chiede perché abbia voluto smettere di recitare, e Gottlieb, ligio, ricopia la frase riferita da Niven, morto anche lui da quarant’anni.
Uno dei problemi, nel volersi occupare dello star system del Novecento, è che sono quasi tutti morti: non solo i soggetti delle biografie, ma anche i testimoni che potrebbero raccontarteli. Altro problema (o vantaggio): era un secolo meno equipaggiato di strumenti per il pettegolezzo. Una Garbo che oggi si ritirasse a vivere privatamente a New York verrebbe filmata da un cellulare ogni volta che va a prendere il caffè, qualunque sua cameriera venderebbe interviste a qualche tabloid, i talk show intervisterebbero la proprietaria del lavasecco dove porta le giacche, i suoi amici concorrerebbero a qualche reality con la qualifica professionale «amico della Garbo» e si lascerebbero scappare aneddoti privati in una diretta notturna che tutti guarderemmo ritagliata su YouTube. Ci sarebbe da rivalutare Beaton.
Cecil Beaton è un fotografo inglese di cui probabilmente avete visto i ritratti (i più famosi sono quelli di Marella Agnelli e di Marilyn Monroe). È stato – forse – l’amante di Greta Garbo, ed è sicuramente la figura psicologicamente più interessante tra quelle che hanno un certo spazio nella sua vita. È irrilevante che Beaton fosse omosessuale: Gottlieb ci racconta che la sua ossessione e la sua ambizione erano quelle di arrivare a sposare Greta Garbo. Cosa ci sia stato davvero fra i due non possiamo saperlo, giacché il povero Gottlieb ha a disposizione solo i libri già usciti su quegli anni (Garbo ha una lunghissima bibliografia) e testimonianze di defunti. Non sappiamo la verità neanche di quelli che vediamo in diretta su Instagram, figuriamoci di gente morta quando neppure c’erano le macchine da scrivere elettriche. Ma Beaton fa di tutto per conoscerla, e quando finalmente riescono a incontrarsi si baciano, scrive lui nel suo diario (quello che in letteratura si chiama: narratore inaffidabile; è lo stesso Gottlieb a dire che Beaton riferiva frasi in cui la Garbo ammetteva d’essere fisicamente attratta da lui, «le riferiva o le inventava»). Seguono molti anni di allontanamenti e riavvicinamenti.
Cinque anni dopo il primo incontro, Beaton scrive un articolo su di lei, e meno male che era il suo grande amore, perché la descrive così: «Una ragazzona di campagna è stata pubblicizzata come una spia esotica. Per perdere peso non può toccare neanche le carote, e quindi i suoi nervi, e non solo la sua salute, risentono delle esigenze pubblicitarie» (oggi la produzione cinematografica che mettesse una Garbo a dieta perderebbe la reputazione). Continua con: «È superstiziosa, sospettosa, e non sa cosa sia l’amicizia. È incapace d’amare». Come tutti i personaggi di questo romanzo travestito da biografia, Beaton non è uno che vorresti per amico. A un certo punto pubblica in un’autobiografia la propria versione della loro relazione: c’è uno sgarbo maggiore che si possa fare a una che rifugge con tanta determinazione la ribalta?
Ma insomma, sono stati amanti o no, Beaton che tutti sapevano essere gay e la Garbo che tutti sospettavano essere lesbica? Le risposte migliori la danno Sam Green, il tuttofare della Garbo a New York, secondo cui Beaton «era il tipo che più che scoparsi una star ne è in soggezione»; e il coreografo Frederick Ashton, per il quale «per Cecil, farsi la Garbo era l’equivalente di tutte le candele che s’accendono in contemporanea all’altare celeste, mentre lei aveva l’approccio scandinavo per cui il sesso fa bene alla pelle». Green è anche quello secondo il quale la cosa più generosa mai fatta dall’egoistissima Garbo fu andare a trovare Beaton un’ultima volta, negli anni Settanta, quando lui era già malato. E, quando si trovavano lì, e lui faticava a muoversi, dire vedi, ho fatto bene a non sposarlo, guarda com’è ridotto.
Per tutta la lettura ho pensato a Truman Capote. Non solo per quella sua frase sulla letteratura che è tutta pettegolezzo, che mi pare perfetta definizione per una biografia che di fattuale può avere ben poco; non solo perché Capote conosceva la Garbo (e raccontava che Beaton era l’unico a «soddisfarla fisicamente», qualunque cosa significhi); non solo perché anche Capote rovinò i suoi rapporti con molte signore dell’alta società per incontinenza autobiografica; soprattutto perché due anni fa è uscito in America un libro intitolato Capote’s Women. Racconta appunto le signore che gravitavano attorno allo scrittore, da Pamela Churchill a Lee Radziwill, e quindi racconta l’alta società americana di metà Novecento. Sta per diventare una serie televisiva, ed è stato quando m’è tornato in mente che mi sono resa conto che da una biografia non vogliamo la verità, qualunque cosa essa sia. E che Garbo sarebbe il materiale letterario perfetto per l’attuale deriva da sosia del Bagaglino della serialità tratta dalle storie vere. La Garbo che racconta che avrebbe potuto uccidere Hitler: lui la bramava talmente che, se fosse andata a trovarlo, non l’avrebbero perquisita, e sarebbe stata l’unica a potersi avvicinare a lui con una pistola nella borsetta. La Garbo e Wallis Simpson che, a Portofino, si fissano come in un western in cui si debba decidere non chi spara per primo ma chi delle due sia la donna più leggendaria del Novecento. La Garbo ignorantissima, che da grande è la conversatrice più noiosa del mondo, interessata solo alle diete, e da piccola, quando a scuola le chiedono di leggere a voce alta un brano di Schiller, chiede chi sia questa Maria Stuarda e se sia vissuta davvero. La Garbo tirchissima che compra quadri di Renoir risparmiando sulle mance al portiere. Che sia vera o immaginaria, nella vita di questa Garbo c’è più trama che nei suoi film.