Tuttolibri, 15 aprile 2023
Le bestie viste da Massimo Zamboni
Sono intorno a noi. Sono «guardabuoi impertinenti», parrocchetti «sudamericani per temperamento e lontanissima ascendenza», ma c’è anche il punteruolo rosso della palma, coleottero «attraente e che si fa notare». O il carismatico castoro Ponta, primo e finora unico esemplare riapparso in Italia dopo cinque secoli di assenza. Bestiario Selvatico è una collezione di momenti, brevi intensi racconti in cui Massimo Zamboni, musicista e scrittore, mitico chitarrista e compositore del gruppo punk rock italiano Cccp e dei Csi, mette in scena i suoi incontri con questo esistere ignorato e negletto. Apologhi narrativi, li chiama. Ed è subito chiaro il perché. Zamboni si fa osservatore delicato, si muove al buio e non si fa notare, immerso nell’ambiente naturale dove trovano casa tante specie diverse: animali italiani per ascendenza, rientrati dopo lunga assenza, e animali italiani per adozione, che arrivano da clandestini chi per mare nelle acque di zavorra, chi attraversando le Alpi, chi dal cielo. Come recita il sottotitolo: «Appunti sui ritorni e sugli intrusi», animali spinti a muoversi spesso da trasformazioni antropiche di habitat e clima o importati intenzionalmente dall’uomo.
Zamboni, una fauna in movimento globale?
«Gli animali non presidiano confini, a differenza dell’uomo non conoscono frontiere».
Nella sua sinfonia di parole si percepisce il trattenere il fiato, il battito accelerato, lo stato di allerta degli appostamenti osservativi. Dove nasce il suo registro linguistico così peculiare?
«È il mio stile, uno stile cantato che deriva dalla mia esperienza musicale: credo che il suono sia più capace di esprimere il significato profondo di una parola, molto più dell’etimologia. Tante volte mi capita di scrivere delle frasi senza neanche sapere bene che cosa ho in mente. Poi, pian piano, il suono comincia a farsi incantatorio e svela cosa ha voluto dire. Con gli animali ciò avviene con molta più spontaneità che con gli uomini, dove serve maggior controllo e seguire tale colonna sonora diventa più difficile».
Una trentina di animali, altrettanti viaggi per l’Italia. Quanto è durata la preparazione per questo libro?
«La gestazione esperienziale è stata di una decina d’anni, la stesura è durata poco più di un anno, un record assoluto per me, che ho dei tempi più lunghi: ad esempio, ho impiegato anche nove anni tra lunghe ricerche di archivio e raccolta delle fonti».
Qui, invece, nessuna ricerca sul comportamento animale?
«In fase di preparazione alla stesura, molto poche. Perché volevo vedere ogni animale descritto o perlomeno visitarne l’habitat mentre lo aspettavo, anche invano. È un grande piacere girare per l’Italia osservando gli animali».
La poesia di questo libro viene a tratti interrotta da molta crudezza, come nelle descrizioni di caccia e pesca.
«Quando posato sugli animali, il nostro sguardo è sempre utilitaristico e freddo: quell’animale ci serve a qualcosa o non serve a nulla? Ma sarà buono da mangiare? Poche volte c’è un’analisi scientifica. Anche quando c’è un’ammirazione sconfinata, spesso non trova le parole. Io le ho cercate: sono quelle dello sguardo della meraviglia. Se per alcune specie è più facile, come il castoro, la lince, il lupo, lo stesso identico sguardo si posa anche sugli altri animali, come la cimice asiatica, l’ostrica portoghese o la rana toro. Nell’uomo prevale l’altro aspetto, la valutazione del guadagno o del danno economico, pur esistente, che certe specie invasive ci procurano. Ci sono però tante maniere sorprendenti di approcciarsi agli animali. Dovremmo imparare a vederle».
A proposito di questo, il suo incontro notturno con lo sciacallo è interrotto dalle urla di un guardiano di un capannone, di cui lei dice: «Che bellezza, quest’uomo che vive tra gli sciacalli e mai se ne accorgerà». Siamo sempre così ciechi?
«Non ci rendiamo mai veramente conto del mondo in cui viviamo. Possiamo anche incontrare casualmente un animale selvatico, ma la nostra visione limitatissima e quasi precostituita di quanto è intorno a noi non ci fa vedere il suolo dove camminiamo, figuriamoci quella moltitudine di esseri che vive tutt’intorno a noi, non dico in piccole nicchie ma in aree estesissime. Questo sguardo mancante mi stupisce molto».
Anche perché noi e loro siamo parte di un’unica catena, come emerge chiaramente in molti racconti. Siamo interconnessi molto strettamente.
«Certo, ma al contempo ci rendiamo conto della loro assoluta indifferenza verso di noi. Al massimo, si servono delle nostre campagne e delle nostre città ma potrebbero benissimo farcela da soli. La loro capacità ferisce e, anche per questo, noi tentiamo di sminuirli, di ingabbiarli, di trattarli male. C’è questa impertinenza che gli uomini sono poco propensi a concedere alle altre creature del pianeta. Invece, occorrerà farlo».
In un mondo non addomesticato si respira anche paura. Da dove deriva la sua dimestichezza con quel selvatico che ci racconta, «quegli occhi che vedono senza essere visti»?
«Io quel selvatico lo frequento e lo sento. Vivo in mezzo al bosco: so benissimo che al di là del prato curato di casa c’è una vita che veramente pullula, animali di ogni tipo che si manifestano sempre, anche se non necessariamente in maniera visibile. Dopotutto, è casa loro, noi siamo solo degli ospiti».
Lei racconta l’entusiasmo infantile per «La Fauna», pubblicazione del Touring Club Italiano del 1959 e che, più in là con gli anni, dalla vendita nientedimeno che di una bella chitarra Welson, acquistò «La Nuova guida del birdwatcher» e un binocolo Ziel approvato dal Cai. Il suo è un amore di lunga data?
«Dalla nascita. Avevo i nonni in campagna, ho abitato per anni in collina. Vivo mentalmente nella natura. Sono innamorato degli animali. In quel regno del vagabondaggio tra boschi, borraccia a tracolla e coltello in tasca, nella tua immaginazione sei in Canada o in Africa. Lo stesso continua a essere vero anche oggi, tanto che quando posso continuo a perdermi in mezzo agli alberi, ma non è questione di nostalgia. Farlo mi restituisce la pace, mi fa capire la concitazione delle nostre vite e quanto manchi la contemplazione, quell’assumere il punto di vista degli animali e delle piante e stare fermi in attesa che le cose passino, che ti passino davanti. Ne sento profondamente la mancanza, pur amando il mio lavoro, la musica, la scrittura, l’essere contadino».
Lei vive lentamente?
«Come tutti, sono preso dalla frenesia e schiacciato dalle incombenze, in un giorno immagazzino così tante impressioni e così tanti pensieri che mi do il tempo dopo di scriverne con molta moltissima calma. Noi conserviamo tutto, devi solo imparare in quale angolino sono nascoste quelle sensazioni. Mi capita di riprendere spunti di canzoni anche di dieci anni prima: d’improvviso risaltano fuori e capisci che è il momento di dar loro una forma. Come il mio viaggio a Berlino del 1981: l’ho raccontato trent’anni dopo».
A proposito di rallentare, anche l’osservazione delle illustrazioni animali di Stefano Schiaparelli, zoologo dell’Università di Genova, che corredano il libro costringe il lettore a soffermarsi più tempo sulla pagina.
«Un bell’incontro imprevisto con Stefano. Ci siamo trovati a chiacchierare del punteruolo della palma. E ho visto i suoi acquerelli quasi ottocenteschi, da vero scienziato naturalista, dallo stile quasi infantile ma anche molto dettagliato, che mostrano un’enorme capacità di mettere su carta una visione. Sono anche utili: non tutti conoscono l’Anodonta mutabilis o il Torymus».
Alla fine, il suo verdetto è chiaro e porta alla «sensazione della nostra inferiorità: di energie, di prospettive. Di tempo a disposizione. A fronte della miopia che ci distingue, l’esuberanza e l’indifferenza delle forze naturali segnalano un gradino evolutivo più compiuto del nostro. Siamo diventati noi, gli alloctoni?
«Il verdetto è impietoso. In fin dei conti, il mio è un libro con morale».
Qual è questa morale?
«La morale l’ho incontrata per caso un giorno in una pianura allagata in provincia di Reggio Emilia. Col mio cannocchiale in mano, ero l’intruso in mezzo a una moltitudine impressionante di uccelli diversi che non si curano affatto di te e che non avrei mai pensato di vedere in quei luoghi. Ti chiedi: dove stanno durante il giorno? E io che ci faccio qui? Ti senti inopportuno. Sovrastato. Dopo quella visione, sali in auto e pensi che gli altri non hanno mai visto un simile scenario e, se anche fosse, non se ne curerebbero affatto».
E allora?
Allora, ti vien da pensare all’estinzione, un cambio di rotta improvviso in questa attitudine umana essendo improbabile, e provi un senso di pace perché, amando così completamente il nostro pianeta, non credi che la nostra scomparsa possa essere un danno. Per moltissime creature non lo sarà».