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 2023  aprile 15 Sabato calendario

Intervista alla psicologa Stefania Andreoli

Non più piccoli ma non ancora grandi, crisalidi intrappolate in una muta perenne, ex adolescenti «salpati trionfanti come Titanic» e finiti alla deriva in un maremoto di incertezze e paure, naufraghi nel tentativo di trovare e dare un senso alla vita e, come se non bastasse, «ignorati dalla politica, ridicolizzati dal mercato del lavoro, esclusi dal carrello dei consumi, ostaggio della famiglia, mal rappresentati dai mezzi di comunicazione». Eppure meravigliosi. I giovani adulti - definizione che abbraccia l’età compresa tra i 20 e i 30 anni -, hanno ora una stella polare a cui affidarsi: Stefania Andreoli, la psicologa e psicoterapeuta dal sorriso amorevole e il tono assertivo, ospite contesa da programmi tv e radiofonici, star di Instagram, dove è per tutti semplicemente "doc", ha intercettato il loro sos. Li ha ascoltati, e capiti, ha fatto da megafono alle loro urgenze, li ha visti per la prima volta, e li ha emblematicamente raccolti e raccontati nel nuovo saggio Perfetti o felici. Diventare adulti in un’epoca di smarrimento, un successo grande: primo nella classifica dei libri più venduti, già virale su Tik Tok, con quella copertina arancio pop e una ragazza in volo (o in caduta libera?). A loro è bastato non sentirsi dare dei «bamboccioni», un po’ falliti un po’ perdigiorno, per ricompensarla con un bombing di «grazie Doc». Il libro nasce nella sua «stanza delle parole» (lo studio dove riceve i pazienti), che ha iniziato qualche anno fa a popolarsi prima di madri alle prese con figli irrisolti, e poi «a decine hanno inaspettatamente cominciato a cercarmi proprio loro: i giovani adulti».


Doc (mi permetto anch’io) perché felici "o" perfetti? Ci hanno insegnato a cercare di essere felici "e" perfetti...
«I millennials hanno messo a fuoco che "perfezione" e "felicità" nella stessa frase sono un ossimoro: l’idea della perfezione, fasulla e utopistica, non può che fare la guerra ai tentativi di avere una vita felice».
Cos’è, allora, la felicità per i giovani adulti?
«Una faccenda seria, che a differenza dei loro genitori intendono trattare con lo stesso impegno che mettono nelle altre questioni globali: pensandoci. La soluzione che hanno identificato, raffinata e sfidante, sta nella felicità come autenticità di sé. Detto in altri termini, la felicità per loro equivale alla salute, e sfido a contraddirli».
Cosa le chiedono?
«Nel libro ho usato il termine "bizantino" per dire della qualità che portano nella stanza delle parole: la loro domanda d’aiuto più che terapeutica è esistenziale, filosofica. Chiedono come si faccia a diventare Sé in un mondo di soli genitori e non più di testimoni e Maestri. Si interrogano sul senso, sui significati, sulle priorità. Oggi per stare al cospetto dei giovani adulti, occorre essere molto adulti, altrimenti risulta davvero difficile fare i conti con il carattere fondante e spesso faticoso delle questioni importanti per loro».
Agitano, senza vergogna, la bandiera della fragilità. Non la nascondono, la esibiscono. Tutto il contrario degli adulti, sempre così orientati alla performance. È forse una reazione?
«Sì. In psicanalisi la chiameremmo "reazione controfobica": sono stati cresciuti con il (nostro) mito dell’efficienza e della riuscita misurabile in risultati concreti e monetizzabili e questo è il loro esorcismo. Non basta a ripararli dalla paura, ma provano comunque a non mollare».
Di cosa hanno paura?
«Il loro più grande terrore è legato al timore del giudizio. D’altronde, non vi sfugge nessuno, c’è solo chi più di altri lo porta con eleganza, mantenendo saldezza in sé stesso. Ma è una posa dei più grandi, dei più maturi. Un esito, non una dote di partenza».
La scorsa settimana, il suicidio di uno studente di Chieti: aveva detto di essere prossimo alla laurea in Medicina, in realtà era indietro con gli esami. Cosa non funziona nel rapporto con lo studio, spesso inquinato dall’esasperata competizione?
«Non sono certa che la questione si limiti allo studio: lavoro tutti i giorni con storie del genere e mi sento portata a dire che pensare che sia il rapporto con lo studio ad essere problematico temo equivalga a prendersela un po’ con la professoressa di matematica che ci ha presi di mira: trovo sia più il dito, che non la luna».
Di che si tratta allora?
«Per la mia esperienza il focus va allargato fino a considerare che oggi deludere le aspettative nei termini dei risultati da smarcare sulla lista delle cose da fare è diventato imperdonabile, perché da quando l’università è diventata la prosecuzione dell’obbligo scolastico non farla o farla con fatica risulta inammissibile, pena la vergogna».
Il famoso "pezzo di carta" è ancora un leit motiv tra le mura domestiche...
«Da che il primato del fare ha annullato la possibilità di essere, finire per sentirsi indegni se non si fa bene come gli altri (ma chi, poi, ché siamo tutti messi male?) diventa ragione di indegnità insopportabile. Trascurare il dolore che regge la narrazione di queste storie, snobbarlo, chiamare in causa "i nostri tempi" è quanto di più anacronistico è miope possiamo fare».
Capitolo sesso: questo sconosciuto. Lei parla di afanisi, scomparsa del desiderio, chiamando in causa anche l’equità di genere che, assieme alla "questione del femminile e dei corpi" può "intimidire e far retrocedere una sessualità maschile con meno certezze e punti di riferimento rispetto al passato": addirittura?
«Il futuro del sesso (incerto e infelice) è una questione che a mio modo di vedere non ci interroga a sufficienza: oggi abbiamo bambini bombardati fin dalla tenera età dagli input sessuali (per alcune teorie antropologiche, motivo per il quale a sempre più bambine arriva il menarca alla scuola primaria), in linea con una cultura che è passata repentinamente dal tabù del sesso all’invito senza filtri a "farlo". E così, come diceva una vecchia battuta, diventa vero che più si parla di sesso meno lo si fa: anche questa è una reazione controfobica. La rivoluzione sessuale della contemporaneità è l’astinenza».
In "Perfetti o Felici" emerge un profondo senso del collettivo nei giovani adulti, che contrasta con il nostro individualismo, allora perché non riescono a farsi sentire e a contare davvero?
«Domanda fondamentale: perché non se lo dicono tra loro! Mi creda, se avessi un centesimo per ogni giovane adulto che mi ha detto o scritto di sentirsi l’unico reietto al mondo, ora starei facendo questa intervista dal mio buen retiro in Polinesia Francese. Credo che il successo di Perfetti o felici dipenda proprio da questo: da singoli soggetti antropologici, ho raccontato i millennials come un segmento generazionale. Un collettivo inconsapevole, appunto».
Cosa rischiamo se continueremo a non ascoltarli?
«Questi giovani sono gli unici (e forse gli ultimi) cui consegnare un destino. Se non raccogliamo il messaggio che cercano di farci sentire, temo che prima o poi dovremo constatare che sia troppo tardi per uscire da questi tempi così bassi e depressi. Per il genere umano, e per la Terra».
Anche lo Stato ha le sue responsabilità: nel bilancio la voce "spesa per i giovani" dovrebbe essere forse più rappresentata rispetto alla voce "pensioni"?
«Non è un caso che io non mi occupi di politica, ma lo faccia qualcun altro. Perché la mia risposta è certamente "sì"».
È molto critica con il "politicamente corretto": perché?
«Non so se io sia "molto" critica, ma "critica" lo sono di sicuro: mi sembra un mantello dell’invisibilità, ha presente? Come quello che usano i bambini per giocare a scomparire – ma chiaramente non funziona. Il politicamente corretto finge, ci mette sotto copertura, ci rende fasulli e prescrive forme di espressione più limitate di quante siano le forme di pensiero. La strada per la mia sensibilità è un’altra: posso dire qualunque cosa, se penso in modo pulito e rispettoso qualunque cosa».
Invece assolve i social e l’utilizzo che ne fanno i ragazzi...
«Perché il rapporto che hanno con i social è buono, molto migliore del nostro. Li usano bene, Sanno staccarsene, ne riconoscono la tossicità. Sono figli del loro tempo e dei costumi, più che dei loro genitori».
La cito: "La famiglia che fa da culla contiene in sé un grave guasto": quale?
«La psicanalista Laura Pigozzi lo chiama "il danno endogamico: la famiglia contemporanea è eccessiva, onnipresente, invischiante. Fraintende il suo intento, che sarebbe quello di consegnare il figlio al mondo e finisce al contrario per tenerlo dentro, in un legame imperituro».
Qualcuno potrebbe obiettare che sia il figlio a doversene andare..
«Ma non è così che funziona: se il guasto strutturale è la simbiosi, che uno dei suoi membri provi a sottrarsene non verrà facilmente tollerato e si metteranno in atto molti stratagemmi per impedire che accada».
In che modo?
«Suscitando sensi di colpa o richiamando a presunti patti di lealtà: nelle famiglie in cui si mette al centro il figlio, il figlio anche se adulto non può andarsene, pena il crollo dell’intero sistema».
E quando invece il figlio lascia casa, lei ci insegna, «apre una ferita narcisistica, il messaggio sotteso che lancia al genitori è: "Non farò nulla di quello che hai fatto tu, perché nemmeno avresti dovuto farlo". Ma cosa hanno fatto di tanto sbagliato questi genitori?
«Per come me li raccontano loro, il peccato capitale è avere scimmiottato un modello tradizionale che ormai non esiste più ma che cercano di replicare con accanimento: il modello patriarcale della famiglia di un tempo, delle frasi fatte, del figlio trattato come oggetto anziché come soggetto. I figli non si sentono pensati come persone ma solo come propaggini di un "Si è sempre fatto così e guarda io come sono cresciuto bene". Non è vero, e non intendono starci più, anche se non sanno ancora bene come uscirne».
Nutrire aspettative verso un figlio, da parte di un genitore, è un istinto naturale: dove sta il problema?
«Se tieni a qualcuno non puoi non nutrire aspettative nei suoi riguardi. Il punto è che tra aspettarti il compimento di qualcuno e mettergli addosso un destino, il passo è fin troppo breve».
Facciamo un esempio: un giovane adulto studia Ingegneria, si laurea con i massimi dei voti. Ma è infelice, vuole lasciar perdere la carriera e la professione per fare l’estetista. Come dovrebbe porsi il genitore che presta ascolto?
«Beh, il figlio di questo esempio ha, come minimo, 26 anni. Il genitore "sufficientemente buono" del figlio adulto si farebbe da parte, sapendo che è finito anni prima il tempo in cui trasmettergli qualcosa e che ormai il miglior segno di fiducia e riuscita nel progetto educativo della famiglia sarebbe limitarsi a dire: "Giunti ad un certo punto, vivere diventa una faccenda che riguarda solo il suo titolare. Tu"».
Lei non è solo una psicologa, ma anche un personaggio pubblico, amatissimo perché parla dei giovani con i giovani in una lingua per loro comprensibile e amichevole: che modello crede di essere?
«Raccolgo i riscontri perlopiù delle donne e delle colleghe (o future colleghe): mi pare leggano con intelligenza il messaggio e le mie intenzioni, e che piaccia loro un’interezza fatta di vita, lavoro, maternità e passioni personali che convivono senza azzuffarsi tra loro e farne fuori qualcuna».
Il miglior complimento?
«Quello di chi mi dice che seguendo il mio lavoro si sente aiutato a pensare, come se io fossi un secondo cervello ausiliario che mette in ordine le cose. Mi inorgoglisce l’idea di aver portato al grande pubblico la psicologia, che è uno sguardo che richiede un linguaggio specifico.
Ha risposto a queste domande tra un paziente e l’altro. Lavora duro, scrive bene, ha una vita privata. Sembra perfetta "e" felice. Ma, confessi: lei non ha forse un sogno per le sue bambine, Agnese e Delfina?
«Come scrissi nel mio precedente Lo faccio per me, ho due figlie ma non le possiedo. Non sono mie. Auguro loro di appartenersi, di non compiacermi, di non farmi sconti in adolescenza e di sviluppare un certo gusto dell’esistere. Quando sei sul fondo, e prima o poi lo si è, è l’unica fune cui aggrapparsi».