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 2023  aprile 15 Sabato calendario

Biografia di Carol Beebe Tarantelli raccontata da lei stessa

È diventata psicoanalista per elaborare un dolore che non si rimargina: la morte del marito Ezio, ucciso dalle Brigate rosse il 27 marzo del 1985. È stata parlamentare, ha lavorato nelle carceri con i detenuti. E adesso ha scritto un libro sulla sua storia
È una donna che ha sofferto, amato, fino a rendere l’amore per il suo uomo, ucciso dalle Brigate Rosse, il dolore inatteso e devastante che cambia la prospettiva e tramortisce la vita. Non era mai uscita davvero dal riserbo Carole Beebe Tarantelli e lo ha fatto con un libro bello e intenso, frutto di un confronto discreto e appassionato con Alessandro Portelli, americanista e amico da vecchia data. Benedetta Tobagi ne ha parlato suRepubblica e se c’è ancora qualcosa da scoprire nel cuore di Carole, che a lungo ha dormito, allora vale la pena avvicinarla provando a capire che cosa passa dalle strette fessure del ricordo. Carole è psicoanalista, una scelta nata forse un po’ per necessità, quando ha sentito, dopo l’assassinio di Ezio Tarantelli, il bisogno di affidarsi a una professione che l’aiutasse a uscire dal “lutto”.
Sei riuscita a portare a termine questa elaborazione?
«Ezio è stato ucciso 38 anni fa, quello che è venuto dopo riguarda la faticosa riscoperta di me e del mondo che avevo intorno. Certo che ho elaborato, per dirla nel linguaggio tecnico, altrimenti non potrei affrontare i miei pazienti. Ma il vuoto – quello spazio simbolicamente smarrente – è ancora lì. Non fa male, almeno non come un tempo. Ma in certi momenti detta ancora la parola dolore».
Hai scritto con Alessandro Portelli un libro vero, intimo, a tratti drammatico, ma anche liberatorio.
Cosa ti ha fatto decidere?
«Per anni mi sono rifiutata di raccontare. Non me la sentivo. Forse era arrivato il momento per dire sì. Nella
vita ho detto alcuni sì importanti».
Quali?
«Ho detto sì a venire in Italia, ho detto sì al matrimonio, ho detto sì a candidarmi in parlamento, ho detto sì al libro con Sandro».
In fondo non sei come Bartleby lo scrivano.
«I no sono importanti. E quelli del protagonista narrato da Melville possono essere interpretati come una storia di resistenza al potere. Ma in fondo a forza di “preferirei di no”, Bartleby rinuncia anche alla vita. Più che una scelta, la sua è un soccombere alle forze che vorrebbe contrastare».
Ti piace la letteratura?
«Mi piace molto ma dopo la laurea ho capito che non avrei voluto occuparmene, almeno professionalmente. Preferivo fare altro».
Altro cosa?
«Mi sembrava più utile in quegli anni occuparmi dei disagiati. Lavoro sociale tra la gente che viveva negli slums degradati dell’America».
È lì che hai conosciuto Ezio?
«No, ci siamo conosciuti all’università. Al centro per studenti del Mit, dove era stata organizzata una festa. Ero seduta quando dalle spalle sentii una voce che mi chiedeva qualcosa. Mi girai ed era Ezio. Parlammo a lungo e poi alla fine della serata ci demmo un vago appuntamento alla biblioteca dell’istituto. Non pensavo che venisse. Ma andai egualmente, ed era lì ad aspettarmi».
Che anno era?
«Il 1967, ci sposammo tre anni dopo, a Cambridge, negli Stati Uniti. Un prete metodista ci unì in matrimonio.
Pochissimi invitati e cerimonia informale. Poitornammo in Italia».
Ti ha pesato venire a vivere in un paese non tuo?
«Sapevo di correre qualche rischio. Mi ha convinto sapere che il nostro fosse un grande amore».
Da cosa si riconosce?
«Non so dirtelo razionalmente, ma credo c’entri l’adesione all’essenza dell’altro».
Una specie di rispecchiamento?
«No, eravamo molto diversi. Direi il rispetto di questa diversità. Non l’ho capito subito».
Cosa vuoi dire?
«Abbiamo spesso litigato. Il primo litigio furioso avvenne prima del matrimonio. Come conseguenza Ezio andò via di casa e stette fuori tutta la notte. Tornò il giorno dopo e mi disse: non posso vivere senza di te».
Ma i litigi da cosa erano provocati?
«Dai pregiudizi del maschio italiano. Tornava a casa dal lavoro e non si preoccupava dei compiti che in teoria c’eravamo divisi anche nella gestione domestica. Da femminista mi infastidiva il suo atteggiamento. In America il femminismo arrivò prima che in Europa».
Sei nata dove esattamente?
«A Elizabeth nel New Jersey. Poi i miei si trasferirono in un luogo non distante da Pittsburgh. La famiglia di mio padre arrivò in America intorno alla metà del Seicento. I nostri avi erano ugonotti, protestanti calvinisti francesi, coinvolti dalle guerre di religione. Emigrarono anche a causa delle persecuzioni. E molti di loro si stabilirono nelle colonie inglesi di oltreoceano. Mio nonno era un pastore metodista. Mio padre guadagnò una certa fortuna economica e si dichiarò reaganiano convinto. Il ramo materno è più complicato».
Perché?
«Ci sono cose inverosimili come un certo intreccio familiare nientemeno che con Charles Darwin. Non dico che sia del tutto infondato, ma non ho trovato prove. Ma vorrei riprendere il discorso sui litigi, perché c’è un aspetto che ho compreso solo dopo».
Dopo la sua morte, intendi?
«Sì. Ma prima che morisse accadde una cosa molto strana.
Stavo vivendo un periodo di inquietudine e stanchezza.
Un’amica mi consigliò di consultare un’astrologa. Accettai più per curiosità che per convinzione. Quella donna mi disse una cosa che al momento non compresi bene. Era l’estate del 1984. Mi disse che nel mese di marzo si sarebbe creata una grande distanza tra me ed Ezio. Non ne capivo il senso. E dissi che se c’erano stati dei problemi tra di noi, li avevamo risolti. E la donna disse che vedeva quasi fisicamente questa distanza. Me ne andai dubbiosa».
Non cercasti di capire cosa fosse quella distanza?
«La compresi solo dopo che Ezio fu ammazzato, il 27 marzo del 1985. Forse una coincidenza. Non lo so. Ma compresi un’altra cosa. Molto più importante. Quando era a casa non è che Ezio non facesse nulla. Lavorava febbrilmente al suo libro. Come se presagisse che il tempo che gli restava da vivere fosse poco. E ho capito che nel suo lavoro non aveva condizionamenti. Non c’erano schemi mentali che ostacolassero la sua libertà di pensiero. Era questa la sua diversità che ho amato intensamente».
Ezio Tarantelli è stato un valente e originale economista. Impegnato nella ricerca per la Banca d’Italia, e poi nel lavoro teorico per il sindacato.
L’attenzione agli aspetti meno formali e più solidali della scienza economica da dove gli derivavano?
«Da una naturale pulsione a schierarsi con i più deboli e anche dal rapporto con Federico Caffè».
Tu accenni a un furioso litigio tra i due.
«Furioso no. Ma Ezio si arrabbiò tanto con Caffè che, all’ultimo momento, aveva fatto avere una cattedra che spettava a Ezio a un altro».
Un’ingiustizia?
«Così la visse. Ma poi superarono quel momento edEzio comprese che con quella decisione Caffè onorava un impegno che aveva preso e che per lui ci sarebbero state altre occasioni».
Sei diventata psicoanalista dopo la morte di Ezio.
C’è un nesso tra le due cose?
«Penso che una qualche relazione sussista».
Cominci con l’andare in analisi dopo la sua morte?
«Faccio un’analisi come paziente prima e per 4 anni».
La fai perché stai male o perché vuoi fare training?
«La faccio perché sto male e dopo, quando Ezio viene assassinato, comincio un nuovo tipo di analisi che ha come finalità quella di diventare analista».
È interessante e forse significativo che le tue prime ricerche e pubblicazioni sono sul trauma e la violenza generata dai gruppi politici.
«È evidente che lo sfondo delle mie ricerche si lega all’accaduto».
Cerchi di capire cosa si nasconda dietro certi meccanismi?
«È così, anche se allargo i miei studi al trauma prenatale».
Un trauma provoca un’esplosione emotiva difficilmente gestibile al momento. Quando vieni a sapere dell’agguato a Ezio?
«Venne a casa di persona la segretaria di Ezio. Mi disse dell’agguato. Chiesi se era morto. Rispose che quella era la notizia giunta. E che il corpo era stato portato alPoliclinico. La cosa assurda è che l’ambulanza giunse sul posto dell’omicidio impiegando molto tempo per un tragitto che richiedeva cinque minuti».
Vuoi dire che si sarebbe potuto salvare?
«Non lo so. Comunque mi avviai verso l’ospedale e lungo la strada improvvisamente ebbi l’impressione che il sole fosse diventato metallico».
Sotto un sole metallico è il titolo che avete dato al libro. Ma cosa vuol dire?
«Che quel disco incandescente mi appariva impregnato di violenza e di morte».
Fosti chiamata per il riconoscimento?
«Mi recai all’obitorio. Ezio era su un lettino coperto da un lenzuolo. Meccanicamente ne sollevai un lembo. Era stato colpito in più parti ma il solo foro che vedevo era all’altezza del petto. Il punto esatto dove tante volte, sdraiati sulla spiaggia, avevo poggiato la mia testa».
C’era anche un figlio.
«Luca che allora aveva 13 anni».
Come reagì?
«Disse una cosa che mi colpì, disse: la vita deve continuare, ma che ne sarà della mia?».
So che ha scritto anche lui un libro su quella tragica vicenda.
«Una memoria preziosa e importante sul padre e su quegli anni».
Serve scrivere libri?
«Credo che serva a razionalizzare l’accaduto. Ma quando ho riletto le bozze del mio libro sono stata male, davvero tanto, per tre giorni. Come se toccassi con mano il nucleo incandescente del trauma, qualcosa che ti invade e ti distrugge e poi lentamente si rimargina».
Cosa ti succede quando arriva la data del 27 marzo?
«Quel giorno, che fu fatale per Ezio, entro nel panico, vado in tilt. Non è forte come i primi anni, ma è lì a stonarmi l’esistenza».
Hai mai pensato in questi anni di rifarti una vita con un altro uomo?
«Non mi è possibile».
«Quell’ingiustizia che ho subito è troppo grande perché un altro uomo possa metterci rimedio. E poi credo che non ci sia nessuno che potrei ritenere all’altezza della storia che ho vissuto con Ezio».
La tua vita si è riempita della professione di psicoanalista, hai anche fatto per tre legislature la parlamentare, hai un figlio che adori, amici. Ti sei anche dedicata al lavoro nelle carceri. Hai perfino visitato dei terroristi rinchiusi. Perché?
«C’è un desiderio di capire e al tempo stesso vedere cosa il tempo riesce a cambiare in coloro che si sono macchiati di gesti terribili. Alcuni si sono dissociati, pentiti e questo è un fatto».
Vale anche per i responsabili diretti dell’omicidio di Tarantelli?
«Vale per tutti, ma con questa precisazione: io non posso perdonare, chi sono io per poterlo fare? Potrei perdonare per il dolore che mi è stato arrecato. Ma solo la vittima dovrebbe perdonare quello che ha subito. Non si dà perdono, ma non si dà neppure vendetta. Voglio dirti un’ultima cosa in proposito e riguarda Barbara Balzerani».
Il mandante dell’omicidio Tarantelli.
«A un certo punto mi scrisse una lettera. Ne fui sorpresa. Cominciai a leggerla e più andavo avanti più mi accorgevo di quanto fosse pretestuosa e offensiva.
Non c’era pathos, dispiacere, scuse. C’era solo un immenso e stordente vuoto riempito da giustificazioni storiche. Era una lettera strumentale per poter alleggerire la sua pena e godere di alcune agevolazioni. Mi sentii usata, piansi».
Hai raccontato di un tentativo di suicidio di tua nonna e di come tua madre riuscì a salvarla. Hai mai pensato a quel gesto estremo?
«No, anche nei momenti più bui non c’è mai stata la tentazione. La mia educazione metodista me lo ha impedito. Ho una spina dorsale forte e poi avevo un figlio per il quale combattere e dovevo farcela per me e per lui».