il Giornale, 15 aprile 2023
Viaggio tra i gioielli in casa Damiani
«Il diamante è un pezzo di carbone che ha creduto in se stesso» dice un cartello all’ingresso del principale laboratorio manifatturiero del Gruppo Damiani. Siamo a Valenza Po, il più importante distretto orafo italiano. Qui la produzione è ancora rigorosamente artigianale e perfino i gioielli fatti in serie, prevedono innumerevoli lavorazioni a mano. Qui 99 anni fa Enrico Damiani ha aperto un piccolo laboratorio. Suo figlio Damiano l’ha trasformato in un’azienda internazionale su cui i tre nipoti (Silvia, Guido e Giorgio Grassi Damiani) hanno costruito un gruppo che porta il made in Italy nel mondo. «Oltre a Damiani abbiamo i marchi Salvini, Bliss, Calderoni e Venini. In più c’è la catena di oreficerie e gioiellerie Rocca», puntualizza Giorgio che è vicepresidente come la sorella Silvia, mentre sulla poltrona presidenziale siede il fratello Guido. Insieme hanno deciso di acquistare l’ex Palafiere di Valenza per trasformarlo nella più grande delle manifatture del Gruppo. L’arrivo del covid ha bloccato il progetto ma adesso i lavori sono ricominciati e si spera di riuscire a inaugurare la nuova struttura in tempo per i festeggiamenti del centenario. «In questi 12mila metri quadri stimiamo di poter mettere circa 500 dipendenti tra maestri orafi e incastonatori» spiegano i fratelli. Al di là della significativa crescita di fatturato nell’esercizio 22/23, ci sono state tante aperture di negozi nel mondo senza contare che il Paladamiani di Valenza sarà di fatto l’unica alternativa italiana alle multinazionali francesi che hanno recentemente acquistato diverse aziende locali. Inevitabile a questo punto chiedere dove stia la differenza. «Nella famiglia», rispondono in coro i tre fratelli. Silvia è la primogenita, una vera creativa che da ragazza affiancava il padre nella scelta delle perle da acquistare in Oriente e poi crescendo si è occupata di comunicazione facendo indossare i gioielli Damiani a star del calibro di Sophia Loren e riuscendo a convincere personaggi come Sharon Stone e Brad Pitt a creare dei pezzi in esclusiva per il brand. Adesso si occupa in particolare di Venini stringendo anche per lo storico marchio del vetro soffiato accordi prestigiosi con designer come Peter Marino. Giorgio è un po’ la memoria storica dell’azienda avendo affiancato fin da giovanissimo il padre tanto nel business quanto nei processi creativi. Entrato in azienda ad appena 19 anni come export manager è poi diventato il direttore creativo del brand. Ha vinto innumerevoli premi con pezzi di alta gioielleria da mille e una notte, ma ha anche creato gioielli di uso quotidiano come l’anello Gomitolo che da 33 anni ha un enorme successo di critica e pubblico. Guido è invece il businessman di famiglia, uno che adesso vive a Dubai perché da lì è più facile raggiungere l’Oriente e il resto del mondo. Loro ti spiegano che da Damiani il progetto di un gioiello comincia dal disegno a mano libera che viene poi ridisegnato al computer. Ogni mese arrivano circa 300 disegni su carta che vengono visionati, selezionati e a volte modificati. C’è un primo prototipo in una lega metallica senza valore chiamato GIT. Su questa viene creato il mockup dell’oggetto in gomma termoplastica da mettere nel forno. Con il calore la forma si solidifica e viene quindi aperta con un bisturi per ottenere il suo negativo. Qui dentro con molta attenzione viene colata la cera con cui poi verrà realizzata la fusione in oro. «Quello della cera persa è un procedimento inventato nel III millennio a.C. che ci permette di ammirare in tutto il loro splendore sculture antiche e meravigliose come i Bronzi di Riace», spiega Giorgio Damiani. «Noi facciamo questi alberelli» raccontano gli artigiani di Damiani mostrandoci una specie di pinetto che al posto dei rami ha degli anelli con il castone aperto, oppure delle croci di diverse misure o, ancora, le minuscole D che decorano tutte le catenine Damiani oppure la linea D Icon in ceramica tempestata da D e brillantini. L’alberello viene chiuso in un cilindro, coperto di gesso liquido e messo al forno. Nel giro di una notte, mentre la cera si scioglie e viene dispersa da un forellino sul fondo, il gesso si solidifica e l’albero è pronto per finire nel crogiolo. Stavolta il cilindro viene capovolto: il foro deve stare verso l’alto per accogliere la colata d’oro bianco, giallo, verde, rosa, rosso. «Può essere di qualsiasi colore, ma solo uno per volta», avvertono i tecnici specificando che l’oro scioglie a 980 gradi e che per evitare grumi o vuoti d’aria, all’interno della macchina c’è una specie di pala che miscela il metallo fuso. Questo entra negli spazi lasciati liberi dalla cera, li riempie e quando si solidifica l’alberello viene trasformato di nuovo. I rami vengono per così dire «potati» tagliando e spiantonando la base di ogni singolo oggetto. Il fusto viene fuso di nuovo e, mentre tutto ricomincia per altri gioielli, quelli che abbiamo visto nascere diventano perfetti. Inevitabile a questo punto chiedersi quanto oro si perda in tutti questi passaggi produttivi. Una solerte signorina ci mostra i tappetini appiccicosi posti all’uscita di ogni reparto. «Da qui ne recuperiamo circa 5 chili all’anno» dice raccontando poi delle speciali lavatrici in cui vengono lavati i camici dei dipendenti cui si richiede di lavarsi le mani in appositi lavandini con serbatoi di sicurezza. «Sui nostri tavoli ci sono anche degli aspiratori per la polvere d’oro che produciamo lavorando i gioielli» dicono gli orefici, il cui primo compito è sempre lisciare il metallo e controllare che non si siano create bolle e imperfezioni. «Qui è tutto fatto a mano, per cui un oggetto non potrà mai essere uguale all’altro, ma tutti devono essere fatti come si deve: abbiamo un controllo di qualità severissimo» concludono i fratelli. Dal platino alla ceramica, dai diamanti più incredibili alle tormaline di mille colori: non c’è materiale prezioso che non abbiamo visto lavorare da Damiani. La cosa più spettacolare erano comunque le mani d’oro degli artigiani al lavoro.