il Fatto Quotidiano, 15 aprile 2023
Attacco alla polpa del monte
Anticipiamo stralci di “Assalto con mine alla montagna” di Carlo Emilio Gadda, scritto nel 1934 e caduto nell’oblio: lo riporta in libreria De Piante
L’aggressione del monte si opera oggi in gran parte con mezzi meccanici, e precisamente con il filo di acciaio elicoidale… Tuttavia per poter predisporre il fronte di attacco, cioè per preparare utili pendii di slittamento, per discoprire piazzuole di lavoro e tecchie (pareti verticali) di immediata utilità, si ricorre ancora, e assai frequentemente, all’opera delle mine, le quali devono dunque considerarsi come un processo preparatorio alla cavatura vera e propria. Più o meno poderose, esse vengono fatte brillare là dove si debba raggiungere la polpa viva del monte…
Durissima è la lotta dell’uomo contro il monte e spesso è dolorosamente cruenta: essa ha creato attraverso le generazioni una stirpe d’uomini forti, che affrontano i pericoli della cava con la stoica fermezza del combattente, e a un tempo intelligenti e capaci, tanto da “intuire” la montagna con la istintiva sagacia che guida il cacciatore verso la preda.
Il brillamento della mina di stamane si è operato nella settentrionale delle tre valli carraresi dove le innumeri cave (circa settecento) sono disseminate da epoche più o meno lontane; esse sono Ravaccione, Fantiscritti e Colonnata. La seconda deriva il suo nome dal ritrovamento di un piccolo bassorilievo romano raffigurante tre divinità e recante una iscrizione, oggi conservato nel Museo dell’Accademia di Belle Arti a Carrara. Queste figure, di piccole dimensioni e come un po’ raccorciate, furono dal popolo laborioso dei cavatori chiamate sinteticamente “bambini con una scritta”, cioè, nella loro forte e viva lingua “fanti scritti”; e diedero il nome alla valle.
La “varata” di ieri era predisposta alla testata di Ravaccione, e mirava a scoprire dalla materia meno compatta e utile una parete verticale o “tecchia” che poi si rivelò nella sua nudità avere una larghezza di circa 200 metri con una altezza di 70-80. Nei prossimi mesi lo strapiombo così ottenuto verrà affrontato dalle cordate dei “tecchiaioli” che costituiscono la ardita avanguardia dell’esercito e sono dei veri e propri rocciatori d’alta quota.
Comproprietario della cava, sita in località Bettogli, il Conte Renato Lazzoni assisté al brillamento ed al varo frammezzo alla folla di operai, di autorità, di turisti, quivi convenuti da ogni parte d’Italia…
È facilmente immaginabile l’ansietà dei proprietari e dei lavoratori che avevano dovuto recare a spalla, fin lassù, il materiale tutto: e in particolare i venti quintali di esplosivo. Il costo della mina non era piccola cifra: cinquantamila lire la sola polvere, poi il lavoro, la fatica di mesi. Ed ora l’aspettativa dell’esito si fa tormentosa, il timore che lo scoprimento riesca imperfetto, che i detriti, slittando giù per i “ravaneti”, ingombrino o guastino le vicine cave, tutto motivo di ansia, di contenuta apprensione.
Ma la sperimentata sagacia di questa forte e vecchia gente, che da secoli converte in pane il marmo della sua montagna fulgidissima, dove operaio e padrone si uniscono nella fatica e nel pericolo in uno sforzo collegiale che lascia ammirato l’estraneo; ma la durezza, l’intelligenza, il volere, il braccio apuani hanno avuto ragione delle cose; le tenaci formiche vedono cader frantumata nella polvere la torre superba e piena di minaccia, il monte si sfascia come un mostro colpito dalla mazzata del giovane feritore.
Quando la signorina Angeli, gentile figlia del Prof. Comm. Adolfo Angeli, solerte presidente dell’Accademia e valorosissimo docente di letteratura e storia dell’arte, preme il pulsante che opera l’accensione elettrica della mina, l’attesa di tutti si fa morbosa acutezza dell’anima e dei sensi: già le due laterali sono brillate da una decina di minuti, liberando l’avvento alla centrale e massima.
Un attimo non è trascorso: ed ecco la enorme verticalità della tecchia rugginosa alla veduta nostra come per autunnale stanchezza, è quasi accorata dalla segreta prescienza dell’abisso, ecco si disserra in una moltitudine di infranti conci, muro che rovina, nella polvere e nella condanna. Il libro della montagna si apre, la silente cintura si spezza: e tutto che prima era alto ed immune ora propende e prorompe, si dà vinto alla gravitale avidità della valle; dietro la sbriciolata parte, precipitante, insorgono i cumuli bianchi e folli del polverone, demoni gioiosi della rovina.
Poi arriva, tardo, il rombo: cupo sigillo sulla gran pratica, che l’occhio solo, fino a quel momento, aveva svolto. La valle ce lo rimanda come un doglioso muggito di mattanza, il fronte sacro della rupe esprime nell’orrore di quel gemito una coscienza di morte.
© De Piante Editore