La Stampa, 15 aprile 2023
Israele si scontra con Israele
Chi è Israele? Lo Stato ebraico rischia la vita per non rispondere a questa domanda. Perché inevitabile ne consegue l’altra: di chi è Israele? Qualsiasi risposta amputa il corpo israeliano di una o più sezioni. Tribù, adottando il linguaggio biblico oggi ricorrente per distinguere i sottogruppi che in Terra promessa si agitano, distinguono, rimescolano. Nello Stato dai confini non identificati, perché se li delimitasse si spaccherebbe.
Dilemma. Se mondo ebraico, rabbinato e società israeliana tuttora disputano su chi sia ebreo, come pretendere di definire l’identità dello Stato? Ma se il corpo del paese si frammenta e dilania sui princìpi primi, dunque sulla legittimità delle istituzioni, come schivare la questione regina che ne determina e giustifica l’esistenza? Di sicuro il re è nudo. Le acrobazie con cui David Ben Gurion e successori hanno inventato poi evoluto Israele in potenza regionale e avanguardia tecnologica non ne garantiscono il futuro. Serve un fondamento o il ripudio definitivo di qualsiasi fondamento. La costituzione cui si è finora rinunciato causa eccesso di eterogeneità identitaria nella società israeliana. O l’esplicita abdicazione a dotarsene per vivere alla giornata, ciò che fino a un paio di mesi fa pareva ricetta di successo. Costituzione della non-costituzione.
A settantacinque anni dall’avventurosa nascita, cinque dopo l’autocertificazione quale Stato nazionale del popolo ebraico via maggioranza d’un voto in parlamento, la creatura sionista è scossa da crisi identitaria. I suoi dirigenti evocano lo spettro della guerra civile. Caduto il tabù dei tabù, tutto è possibile. Il sogno dei nemici d’Israele, che fiduciosi ne attendono l’autodistruzione, parrebbe prossimo a compiersi. Come al contrario persiste la fede di chi intravvede nella crisi la leva per ristabilire su basi meno incerte il rifugio per ebrei eretto dai superstiti della Shoah. Perché non ne considera affatto esaurita la funzione. Anzi, l’antisemitismo serpeggia ovunque, in forme talvolta banali, talaltra inconsapevoli, spesso violente, tanto da ammetterlo nei salotti del politicamente corretto.
Causa efficiente di tanto caos è la riforma giudiziaria voluta da un primo ministro impegnato a sfuggire il processo per corruzione e perciò abbarbicato al potere, costi quel che costi. Lo scopo è neutralizzare la Corte Suprema, da tempo usa surrogare funzioni tipicamente politiche nel non scritto squilibrio fra poteri. E affermare il primato del governo o meglio del suo capo, signore e gran manipolatore del parlamento.La sospensione della riforma e l’avvio di faticosi negoziati fra maggioranza e opposizione per inventare un compromesso non significano la fine dell’emergenza. Le faglie interne alla società non spariscono grazie a un lodo pacificatore. Sono inscritte nell’evoluzione demografica, antropologica e sociale di Israele. Nel fattore umano. Nella vocazione centrifuga, refrattaria al riconoscimento reciproco fra gli aggruppamenti separati in Eretz Yisrael come in diaspora.Il catalogo delle tribù proposto dall’ex presidente Reuven Rivlin nell’ormai celeberrimo intervento del 7 giugno 2015 alla conferenza di Herzliya fotografava la partizione fra arabi ed ebrei laici, religiosi e ultraortodossi. Secessione strisciante, di carattere «strutturale, che non avremo mai il potere di cancellare». In altre parole, la nazione è impossibile perché ve ne sono almeno quattro in gestazione.Ma l’impossibile unità nazionale non deriva per forza dal tribalismo. Anche le tribù cambiano. Il punto è che Israele le sta incentivando. Fino a consolidarle quasi-nazioni nella non-nazione. Che cos’altro produce la persistenza di quattro tipi di scuole, uno per tribù (cinque, considerando quello dedicato all’esigua minoranza drusa), espressione secondo Rivlin di «visioni totalmente differenti dello Stato d’Israele e dei suoi valori basilari»? Spesso gli studenti di indirizzi diversi nemmeno si parlano, non solo perché attingono a idiomi distinti. Vivono in quartieri o località separate. Monoculturali. Due delle quattro tribù, ricordava Rivlin, «non si definiscono sioniste»: «Non guardano la cerimonia della torcia sul monte Herzl il giorno dell’Indipendenza. Non cantano l’inno nazionale con gli occhi lucidi». Senza pedagogia israeliana niente nazione israeliana. Quando poi i governi sovvenzionano le scuole che antepongono se non contrappongono il Libro allo Stato, incentivano la segregazione. Israele genera le tarme che ne corrodono le impalcature.
«Che cos’è Israele? Non si sa». Così la Knesset nel 1950, fissato che la costituzione non s’ha da fare. Settantatré anni dopo, se Israele si guardasse allo specchio e ripetesse la domanda, identica sarebbe la non risposta.
La tecnica del rinvio permanente sembra al punto di non ritorno. Anime troppo conflittuali, per troppo tempo concentrate nell’offrire la propria intrattabile, assoluta risposta al «chi siamo?», si avvinghiano sull’orlo dell’abisso. Caso unico di crisi costituzionale senza costituzione né formale né materiale. Tre soluzioni “finali": compromesso fra le tribù d’Israele, colpo di Stato o fine dello Stato per consunzione. Le ultime due soluzioni implicano violenza potenzialmente incontrollabile, dall’esito imprevedibile. Comunque rivoluzionario. Cambio di paradigma geopolitico a mano armata. La prima suppone magia in forma di sinedrio abilitato a tracciare finalmente la costituzione. Improbabile, stando all’esperienza di questi tre quarti di secolo. Necessario, per chi considera scaduto il tempo incostituzionale quindi vitale aprire la fabbrica costituzionale.
Conclusione che porta al dubbio con cui convivremo. Non sarà che Israele (r)esiste perché rifiuta di identificarsi? E che lo sforzo di farlo potrebbe ucciderlo? Il “chi sono io?” è la domanda di chi si tormenta nella ricerca di una teoria che ne abbellisca la prassi. E rischia di morirne, dopo una vita spericolata all’insegna di scontri e astuti compromessi puntuali (hasdarah). Nella metafora del sociologo francese Danny Trom: «Lo Stato di Israele assomiglia a quel bambino in bicicletta che nel momento in cui si chiede come faccia a stare in equilibrio smette di pedalare, s’impanica e cade. Forse lo prevede, evita di pensare e continua a pedalare. Volta lo sguardo e smette di pensare ogni volta che è spinto a pensare che cosa stia facendo. L’assenza di costituzione, la predilezione per il bricolage e gli arrangiamenti provvisori in guisa di soluzione, la presupposta reversibilità di ogni iniziativa ne sono i sintomi più patenti». Meglio allora non scoperchiare il vaso di Pandora. Salvo sia già aperto.