La Stampa, 15 aprile 2023
Paul Krugman: i migranti salvano l’economia
La solidità dell’economia statunitense è tale soprattutto grazie all’immigrazione. Una provocazione, ma non troppo, quella lanciata dal premio Nobel Paul Krugman sulle pagine del New York Times, che riecheggia il dibattito italiano sul Documento di economia e finanza. Secondo cui più immigrazione sarebbe funzionale a ridurre il debito pubblico. «Sebbene molti politici non lo ammetteranno mai», scrive, gli Usa stanno «andando molto meglio di quanto si aspettasse la maggior parte degli analisti». E il merito può essere dovuto i migranti economici. «È un’esagerazione, ma con un po’ di verità, dire che gli immigrati stanno salvando l’economia degli Stati Uniti», spiega Krugman. Del resto, sebbene l’inflazione sia ancora elevata, la partecipazione al lavoro è ben oltre le previsioni. Di settimana in settimana, di mese in mese. Anche grazie ai lavoratori importati.
In quella che Krugman definisce la «salsa speciale» che sta ravvivando l’economia statunitense c’è un ingrediente che è difficile da nominare, ma capace di rendere speciale il piatto. Vale a dire, «un improvviso e salutare rimbalzo dell’immigrazione netta, che nel 2022 è salita a più di un milione di persone, il livello più alto dal 2017». Il professore della City University of New York (Cuny) non sa definire quanto questa dinamica sarà duratura, ma concorda che è stata «davvero utile». L’evidenza è che l’occupazione sta superando di slancio le previsioni pre-Covid. «Nel suo Budget and Economic Outlook 2020, pubblicato poco prima che il Covid colpisse, il Congressional Budget Office aveva previsto che l’economia statunitense avrebbe aggiunto due milioni di posti di lavoro nei prossimi tre anni», fa notare Krugman. In effetti, rimarca, «abbiamo aggiunto più di tre milioni» di lavoratori. Numeri che hanno stupito tanto la Federal Reserve quanto la Casa Bianca, che non si attendevano una tale risposta del mercato del lavoro domestico.
Spiegare questo fenomeno non è semplice, però è possibile. Secondo Krugman bisogna tornare indietro con l’orologio e guardare a cosa è successo negli ultimi tre anni. «Di fronte a una pandemia che ha temporaneamente bloccato gran parte dell’economia, il governo federale ha risposto con enormi programmi di aiuto per aiutare i lavoratori licenziati, le imprese in difficoltà e altro ancora», fa notare il Nobel. Questi programmi federali hanno «notevolmente alleviato quelle che avrebbero potuto essere gravi difficoltà economiche, ma hanno anche mantenuto o migliorato la capacità del pubblico di acquistare beni e servizi in un momento in cui la capacità dell’economia di fornire questi beni e servizi era ridotta dalle interruzioni legate alla pandemia». Il risultato? La fiammata dell’inflazione, come noto tanto agli economisti quanto agli investitori.
Lo scenario di base della Federal Reserve, ovvero un calo dell’immigrazione netta, non si è verificato. Jerome Powell, il numero uno della Fed, nello scorso novembre ha sottolineato che mancano ancora circa «400 mila lavoratori» nell’economia americana. Inoltre, aveva previsto una lunga sequela di pensionamenti anticipati, ha fatto notare Krugman. Così non è stato. «La partecipazione alla forza lavoro per gli americani tra i 55 e i 64 anni è tornata ai livelli pre-Covid», spiega il professore di Cuny. Il vero rimbalzo è stato sul fronte dell’immigrazione. «Gli immigrati recenti sono prevalentemente adulti in età lavorativa; secondo i dati del censimento, il 79% dei residenti nati all’estero arrivati dopo il 2010 ha un’età compresa tra i 18 e i 64 anni, rispetto al solo 61% della popolazione in generale», evidenzia Krugman. Quindi, se ne ricava che «l’aumento dell’immigrazione ha probabilmente contribuito in modo significativo alla capacità dell’economia di continuare la rapida crescita dell’occupazione senza un’inflazione galoppante».
La sfida dell’economia americana è appena iniziata. Primo, perché molta manodopera non viene più svolta dai cittadini statunitensi. Proprio come in Italia e diverse altre aree europee, vedasi Francia e Germania. Secondo, perché nel lungo termine sarà necessaria più immigrazione. «Le preoccupazioni a lungo termine sulle finanze statunitensi sono in gran parte guidate da un crescente tasso di dipendenza degli anziani, che considera la crescente percentuale di anziani rispetto alle persone in età lavorativa», scrive Krugman. Se definiamo l’età lavorativa dai 18 ai 64 anni, spiega, l’indice di dipendenza degli anziani negli Stati Uniti, calcolato dagli stessi dati del censimento, è del 27,5%». Tanto, troppo Per i residenti nati all’estero arrivati dopo il 2010, «il rapporto è solo del 5,8%». A conti fatti, dice il Nobel, «i nuovi immigrati pagano nel sistema (fiscale, ma anche economico e sanitario, ndr), ma non trarranno molti benefici per molti anni a venire». Uno squilibrio che dovrà essere prima o poi affrontato. Non solo negli Stati Uniti, bensì anche in Europa. Una lezione per i governi tanto di destra quanto di sinistra.