Robinson, 15 aprile 2023
Messicani
Guadalupe Nettel Sono pochi i documenti rimasti che testimoniano l’aspetto della grande Tenochtitlan, oggi conosciuta come Città del Messico. Il più noto è probabilmente una carta de relación, resoconto che Hernán Cortés mandò all’imperatore Carlo V per descriverla. Il conquistatore rivela di essere abbagliato dalle sue dimensioni («Grande come Siviglia o Cordoba») e assicura che la sua bellezza era paragonabile solo a quella di Venezia, poiché era costruita su una laguna, e per muoversi tra le sue numerose isole, gli abitanti navigavano sui canali a bordo di imbarcazioni. I mexica, chiamati aztechi nella storiografia tradizionale, fondarono México-Tenochtitlan e furono l’ultimo popolo mesoamericano a creare una ricca e complessa tradizione religiosa, politica, astronomica e artistica. Intorno al XV secolo, nel tardo periodo post classico mesoamericano, la città divenne il centro di uno tra gli stati più estesi esistiti nell’America Centrale.La città, come quasi tutti gli insediamenti millenari, è costituita da molti strati, alcuni più profondi di altri, e non mi riferisco soltanto a quelli archeologici. Il modo più evidente in cui possiamo percepirli nella vita quotidiana è probabilmente il gran numero di parole in nahuatl che si pronunciano tutti i giorni in questo luogo. Pare anche che i diversi accenti di Città del Messico, in particolare le loro cadenze e le loro melodie, siano influenzati dal nahuatl, così come l’abitudine profondamente messicana di trovare polisemie, giochi di parole e doppi sensi allusivi in ogni frase. Questa consuetudine, nota come albur, è stata studiata dai linguisti e consiste in una sorta di ingegnoso duello verbale. In genere si considera che qualcuno abbia «vinto» lo scontro quando l’interlocutore tace o dà una risposta non troppo arguta.Molti oggetti domestici di origine precolombiana si continuano a usare tutti i giorni nelle case messicane. I più caratteristici si vedono nelle cucine, dove quasi sempre c’è un molcajete (dal nahuatl molcaxitl, «recipiente per i cibi»), un grande mortaio di pietra, tradizionalmente vulcanica, che si adopera per pestare, preparare o servire i cibi, o il comal (comalli), utensile in ceramica di forma piatta, in origine di terracotta ma oggi spesso di metallo, sul quale la maggior parte di noi messicani cuoce pomodori e peperoni, e riscalda le tortillas. Il metate, una pietra per macinare, una piccola piastra rettangolare che si mette sul pavimento, fondamentale per la preparazione delle salse e dei piatti chiamati mole, e per trasformare il mais in farina. Cronisti come Bernardino de Sahagún sostengono che nell’antico Messico il metate era una manifestazione del femminile, il rumore delle pietre era associato alle madri che preparano da mangiare. La rappresentazione di queste cuoche si può vedere nei dipinti di Diego Rivera e di altri artisti messicani del Novecento.La cucina messicana è stata dichiarata patrimonio immateriale dell’umanità dall’Unesco. L’eredità mexica è nota. Alcuni frutti e ortaggi fondamentali nella nostra alimentazione come l’avocado (ahuacatl) o il pomodoro (xitomatl), oggi consumati in tutto il mondo, sono originari di questa terra così come il mais, il cacao, il cioccolato (xocolatl) e un gran numero di peperoncini. Mangiare le tortillas è un’altra abitudine antica che abbiamo ereditato, anche se, secondo gli storici, quelle originali erano più spesse di quelle che si trovano oggi. Il nixtamal è un procedimento per la preparazione del mais molto particolare, proprio delle culture originarie, che è sopravvissuto per tutti questi secoli e ha permesso di nutrire un gran numero di persone. Consiste nel mettere i chicchi duri del mais a bagno nell’acqua calda, aggiungendo sostanze come cenere, conchiglie di molluschi polverizzate o calce, al fine di ammorbidirli e renderli alcalini. Dopo averli lasciati riposare per diverse ore, si pestano nel metate o in un frantoio, fino a ottenere un impasto morbido. Questo processo arricchisce il mais di calcio e altri minerali e aumenta la biodisponibilità delle proteine. Con l’impasto nixtamalizzato si preparano bevande e piatti come l’atole, i tamales e le tortillas, oltre a molti altri. Un altro uso gastronomico ereditato dagli antichi è il pulque, bevanda alcolica ricavata dalle foglie dell’agave, che si crea grazie alla fermentazione della mucillagine conosciuta popolarmente come aguamiel. Vista la sua densità, il pulque è servito per placare la fame in epoche di grande carestia. La bevanda si usa anche come cura per i disturbi gastrointestinali, data la grande quantità di probiotici che interviene nella sua fermentazione. Un tempo le pulquerías, con la loro atmosfera allegra simile a quella delle osterie e delle taverne, erano tipiche dei quartieri popolari, ma oggi sono diventate di moda tra gli hipster dei quartieri Roma e Condesa.Si dice che quando i primi abitanti raggiunsero l’Anáhuac, il cibo scarseggiasse e che quindi avessero imparato a nutrirsi della poca fauna disponibile nei paraggi. Le iguane, i serpenti, gli armadilli erano riservati ai governanti, mentre il popolo si nutriva di erbe, fiori e insetti. Ancora oggi se ne consumano molti, a Città del Messico, e non è raro trovarli nei ristoranti che servono alta cucina, ma anche in alcune taquerías. I più comuni sono i chapulines, cavallette di colore scuro o violaceo che spesso si servono macinate e hanno un sapore leggermente acido. Non tutte le cavallette si mangiano, solo quelle del genere Sphenarium. Si catturano in un determinato periodo dell’anno e una volta spurgate, si tostano sul comal. I vermi del maguey (agave americana) sono meno comuni, ma molto ricercati. Gli escamoles, parola nahuatl che significa «stufato di formica», sono conosciuti anche come «caviale messicano». Il piatto si prepara con larve delle formiche Liometopum apiculatum, che costruiscono il nido sotto terra, generalmente alla base dell’agave, dei fichi d’india o accanto agli alberi di pepe rosa. Queste formiche nere o rosse sono estremamente aggressive. Per questo motivo, e per la difficoltà di farle riprodurre tutto l’anno, il prezzo degli escamoles è molto alto. Come la maggior parte degli insetti commestibili, le formiche contengono tra il quaranta e il sessanta per cento di proteine. Per questo l’Oms sostiene che, se fosse generalizzato, il consumo di insetti risolverebbe il problema della scarsità di cibo che affligge il pianeta.A differenza di Venezia, la città di Tenochtitlan non era un arcipelago, si reggeva sul lago grazie alla combinazione di agricoltura ed espansione territoriale che prende il nome di chinampas (dal nahuatl chinamitl, «nel recinto di canne»), non del tutto scomparsa. Le chinampas sono grandi zattere costruite su un’intelaiatura di tronchi e pali, riempite di terra e materiali biodegradabili selezionati con cura, come erba, fogliame, bucce di frutta e ortaggi. La tecnica risale ai tempi della cultura teotihuacana (II-VII se- colo d.C. circa), ma raggiunse il massimo sviluppo intorno al 1519, quando occupava quasi tutto il Lago di Xochimilco, a sud della città. Per fissare le chinampas in modo permanente, si seminavano alberi di ahuejote, un tipo di salice con radici che si estendevano fino al letto del lago e oltre. Combinato con altre tecniche come l’irrigazione tramite canali e la costruzione di terrazzamenti, le chinampas hanno permesso di nutrire per secoli una popolazione molto numerosa. Oggi ne restano pochissime, ma è possibile visitarle nelle delegazioni – o municipalità – di Xochimilco e Tláhuac, dove gruppi di contadini continuano a coltivare collettivamente. Sono gli ultimi residui di una tecnica agricola quasi scomparsa, che sarebbe fruttuoso recuperare.L’antropologo e storico Ángel María Garibay diceva ai suoi studenti: «Se ti interessa l’antichità messicana, cerca e conosci l’indio vivo.» Intendeva dire che le antiche culture non sono morte, ma continuano a esistere negli indigeni di oggi. Come molte grandi metropoli del nostro pianeta, Città del Messico è una città di persone emigrate da diversi stati e paesi. Ma la sua specificità di luogo unico e irripetibile risiede nelle radici mexica che, in modo consapevole o inconsapevole, palpitano tutti i giorni in noi che viviamo qui.(traduzione di Federica Niola)