il Fatto Quotidiano, 14 aprile 2023
Mannelli contro tutti
La mia preferita è quella dell’anonimo burocrate che, incoronato dalle stelle di una bandiera dell’Unione europea, dichiara sulla guerra in Ucraina: “Si vis pacem paraculum”. Ma è strepitosa anche quella di Mario Draghi che ghigna mefistofelico “I have a team”. Poi all’improvviso il tono cambia e si legge, con una scrittura in corsivo quasi da lettera a un’innamorata perduta, “così è la notte. Leggera e pesante, bambina”. Nel disegno ci sono un bicchiere di whisky e un pacchetto di sigarette accartocciato. Nel lavoro di Riccardo Mannelli la parola e il disegno danzano insieme come le due mani di un pianista sulla tastiera e vederne le creazioni – giorno dopo giorno – è come ascoltare i virtuosismi di un jazz o le malinconie di un blues. Altro che “vignette”: sono opere d’arte che mi dispiace confinare in un quadratino sempre troppo piccolo di giornale. Intendiamoci subito: Mannelli se ne frega della cronaca, della politica e di tutto. Non si preoccupa del “fatto del giorno”, ossessione fissa di chi lavora in un quotidiano. Ma il bello è che, con la sua sensibilità, anche partendo dai presupposti più diversi da quelli di noi giornalisti, il fatto del giorno finisce comunque col coglierlo immancabilmente. Anche quando sembra parlare di tutt’altro. Questo perché Mannelli non è un semplice vignettista, e lo rivendica con quell’immacolata libertà che solo un giornale come il Fatto Quotidiano può garantirgli. C’è stato un tempo in cui – forse dopo gli straordinari reportage pubblicati su Cuore insieme al suo discepolo e grande artista Gipi – i disegni di Mannelli erano muti. Splendidi ritratti a china e qualche goccia di acquerello nei quali si riconosceva costante il suo marchio di fabbrica: le grandi mani ritratte quasi in primo piano nell’atto di gesticolare. Già nel 1997 per il mio libro Il Processo sulle tangenti Fiat, scritto insieme a Paolo Griseri e a Massimo Novelli per Editori Riuniti, e poi nel 2001 per La Repubblica delle Banane scritto con Peter Gomez, ero riuscito ad accaparrarmi la sua penna per le due copertine. Il risultato furono un ritratto di Cesare Romiti e un ensemble di ritratti di politici mostruosi che quasi rendevano superfluo leggere i due libri. Ritratti che, muti, anche in quel caso obbedivano all’esigenza di parlare e ci riuscivano senza testo, solo grazie alle mani che – mi hanno raccontato alcuni colleghi di Mannelli – sono quanto di più difficile un disegnatore possa affrontare. Ma Mannelli non è un vignettista e non è un semplice disegnatore. È qualcosa di più. Da qui l’idea di affidargli la prima pagina de il Fatto Quotidiano fin dalla fondazione e di ridare finalmente anche voce alle sue creazioni. Un po’ come la storia che Michelangelo avrebbe dato una martellata al suo Mosè, esasperato dalla sua verosimiglianza, a cui difettava solo la parola, gridandogli “Perché non parli?”. Ecco, finalmente sul Fatto i ritratti di Mannelli hanno iniziato a parlare. E non ce n’è più stato per nessuno. Ho perso il conto delle volte che, come direttori del Fatto, Antonio Padellaro prima e poi io siamo stati chiamati a rispondere per qualche lavoro di Riccardo: “volgare”, “crudo”, “irrispettoso”, “violento”, persino “sessista”. I professionisti dell’indignazione hanno sparato tutte le loro cartucce d’argento contro Mannelli. Tutti colpi rispediti al mittente. “Lo stato delle cosce”, scrisse una volta su un ritratto di Maria Elena Boschi a gambe accavallate, più vero di una fotografia. E che dire di quella volta che disegnò un Matteo Salvini – nel pieno della solita polemica sui migranti – che si aggrappava a un salvagente in mezzo al mare e gridava “Io non mollo”? Giuseppe Conte diventò “il principe dello sforo” e Beppe Grillo – con una grossa lattina sulla testa – “uno che sarà ricordato come quello che non riuscì mai ad aprire una scatoletta di tonno”. Qualche imbecille ha scritto e continua a scrivere che le vignette di Riccardo le suggerisce il sottoscritto: magari ne avessi il genio. Lui le inventa, le manda e io le pubblico. Sempre con una punta d’invidia. Nessuno è stato, è e sarà risparmiato: né i politici e i potenti in generale, né la gente comune, anch’essa bersagliata (e dunque in un certo senso omaggiata) dalla penna a china e dal pennarello del nostro toscanaccio. Perché, come titolò Andrea Aloi su Cuore, anche “l’uomo della strada è una bella merda”. Tutti i ritratti di Mannelli sono più veri del vero. Ed è questo che lo rende prezioso, anzi eccezionale e lo proietta oltre la dimensione di semplice disegnatore o vignettista. Mannelli è un artista puro. E i suoi disegni, raccolti in questo libro, sono dei Mosè che parlano. Purtroppo, per gli interessati. Per fortuna, per noi.