Tuttolibri, 14 aprile 2023
Postfazione a "Schiavi della solitudine" di Patrick Hamilton (Fazi)
Fino a quali vertiginosi estremi possa fluttuare la nomea di un autore, non c’è storia che lo dimostri più vistosamente di quella di Patrick Hamilton. Sappiamo che talvolta la fama di uno scrittore precipita a zero dopo la sua morte, anche se di fatto spesso recupera punti, ma lui rimase ignorato e addirittura sconosciuto più a lungo della norma. Dicevi «Patrick Hamilton» e ti sentivi rispondere «Chi?» persino nei Dipartimenti di Lettere; ma poi i suoi estimatori, e una naturale ripresa nell’invisibile ciclo che determina la rinomanza, hanno fatto sì che alcuni suoi libri venissero ristampati, e così egli viene nuovamente ricordato.
Aveva goduto di notorietà in vita come romanziere e drammaturgo, se ne parlava come dell’erede di Dickens, George Gissing, Defoe. Non era uno scrittore eccezionale, ma non è quello il motivo per cui fu temporaneamente dimenticato. Molti scrittori eccezionali possono andare incontro al medesimo destino: George Meredith, per esempio, autore immensamente evoluto e spiritoso, è sprofondato in un abisso di oblio. Ma Patrick Hamilton possiede un’immediatezza di empatia che rende alcuni suoi quadri, alcuni suoi personaggi, memorabili come quelli di un Dickens, sofferti come quelli di un Gissing.
Negli anni Quaranta lo leggevano i giovani, perché quando abitavo nella Rhodesia Meridionale, bloccata laggiù mio malgrado prima dalla Seconda guerra mondiale, e poi dai suoi postumi - niente navi, e i viaggi aerei per il passeggero comune ancora nel futuro - anelavo alle mie origini (sentivo definire l’Inghilterra «casa» da quando ero nata), e dunque scrissi a un amico che aveva svolto l’addestramento per la RAF in quella che allora era Salisbury (oggi Harare), per chiedergli com’era Londra in quel periodo. «Non possiamo continuare in eterno a usare Dickens come guida». Lui mi mandò i romanzi di Patrick Hamilton, che non ritraevano certamente una prospettiva di svaghi e abbondanza, e concordavano invece con le cronache di un’Inghilterra bombardata, razionata, alle strette. E quando nel 1949 giunsi finalmente a Londra, vidi le pagine di Hamilton prendere vita nei pub, per le strade, negli alberghetti modesti. Era uno scrittore di cui si parlava molto, popolare e stimato dagli arbitri letterari del tempo. Le sue pièce andavano in scena nel West End, una su tutte: Nodo alla gola, da cui Hitchcock trasse un film; e i radiodrammi, e in seguito la televisione. Il suo romanzo Hangover Square era assai noto. Quelli che leggevano, lo leggevano tutti, e ogni suo nuovo libro era atteso come succede oggi per gli scrittori più apprezzati. Hamilton era famoso negli ambienti di sinistra perché era comunista, o indicato come tale. «Il partito» - così ci si riferiva allora al Partito Comunista - era fiero di lui, alla sua maniera contraddittoria; la dirigenza si compiaceva di vantare tra le proprie file un autore tanto conosciuto, ma diffidava di autori e artisti che solo di rado si prestavano a essere fedeli alla linea. I pettegolezzi che lo riguardavano non erano affatto malevoli, ma date le voci che giravano sul suo conto, avrebbero potuto esserlo. Si stava uccidendo con l’alcol, e tutti i tentativi di farlo smettere di bere erano andati a vuoto. Si sapeva dei suoi amori sfortunati, per non dire assurdi; almeno in un caso si era innamorato di una prostituta. D’altro canto era generoso con i suoi guadagni, notevoli per l’epoca, e dava aiuto a giovani scrittori e a persone in difficoltà.
Era stato povero, e le sue descrizioni della povertà sono tutto tranne che accademiche. Quando aveva cominciato a scrivere non aveva riscosso un successo immediato, e a quei tempi i giovani scrittori non pensavano di arricchirsi all’istante. Era buono di cuore, affabile e alla mano, e lo dicevano tutti, nel contempo aggiungendo: «Che tragedia, che brutta situazione». E infatti morì per il troppo bere, e fu una tragedia. Tre bottiglie di whisky al giorno? È davvero possibile?
Il motivo principale per cui l’Hamilton autore impiegò così tanto a riprendere quota è la trasformazione che la sua Londra aveva intrapreso nella seconda metà degli anni Cinquanta. Le strade sporche, lesionate dalla guerra, scrostate e lerce che mi avevano accolta al mio arrivo avevano lasciato il posto a qualcosa di nuovo, e assai vivace. Erano tornati i colori, i crateri delle bombe erano spariti. E anche la gente era cambiata: a quel punto, se entravi in un pub non ci trovavi più i personaggi di Hamilton. I giovani erano ovunque, specie nei nuovi caffè per cui dobbiamo ringraziare gli italiani; e anche gli stessi pub si ammodernavano, non sempre incontrando il gusto di tutti.
I personaggi di Hamilton scaturivano da una storia disgraziata. Oggi dimentichiamo che prima della Grande guerra si parlava di rivoluzione imminente - per quanto era atroce la condizione dei lavoratori - benché ora si parli dell’Impero come se tutti ne avessero tratto vantaggio. La paura della Rivoluzione indusse Re Giorgio a rifiutare l’asilo ai suoi parenti Nicky e Alex, zar e zarina di Russia: implorarono il suo aiuto, non lo ottennero, e finirono assassinati. Poi venne la Prima guerra mondiale con le sue devastazioni, e le difficoltà del periodo post-bellico; poi il crollo di Wall Street e la Grande depressione. Spesso si dimentica che di nuovo la condizione operaia precipitò al punto che masse enormi di lavoratori campavano di pane e sego, pane e margarina, zucchero e tè. Quando si presentavano nei centri di arruolamento, i giovani destinati alla truppa erano parecchi centimetri più bassi dei loro coetanei di classe media, e in cattive condizioni fisiche. La Seconda guerra mondiale e i suoi postumi impoverirono tutta la Gran Bretagna. Le classi agiate sono state ampiamente descritte da Evelyn Waugh, Nancy Mitford e Anthony Powell, ma ci furono anche altri testimoni, tra i quali Patrick Hamilton è stato il più affidabile.
Oggi si sente chiedere: «Ma come ha fatto tanta gente a diventare comunista? Perché è successo?».
È stata questa storia, e in specie l’angoscia delle recessioni, a creare tanti comunisti. Decenni di tempi duri e turbolenti avevano plasmato il mondo hamiltoniano di farabutti e traffichini, mascalzoni e ricattatori, ladri e assassini, nonché alcune delle donne più cattive della letteratura. Oggi non ci ricordiamo che ai tempi le ragazze dovevano cercare un marito che evitasse loro un destino da zitelle e una vecchiaia miseranda; dovevano trovarsi un uomo da sfruttare. Adesso si trovano un lavoro. E se avevano un lavoro ai tempi, di certo non guadagnavano affatto quanto gli uomini. Ma Hamilton raffigura i tentativi delle ragazze squattrinate di conservare l’onestà e il decoro, proprio come George Gissing aveva fatto prima di lui. Penso tuttavia che si debbano ricordare le stronze avide e calcolatrici di Patrick Hamilton con un ribrezzo che non si dedica a nessun altro romanziere.
Era un bravo odiatore. Al pari di George Orwell, detestava un certo strato della società britannica: pretenziosità e snobismo, ignoranza del mondo esterno, abbinati a una degnazione generata dalla consapevolezza di far parte del più grande impero del mondo. E lì allignavano i veri farabutti, come Gorse: la trilogia che lo vede protagonista divenne uno sceneggiato televisivo e regalò una parola alla lingua: «Quello è veramente un gorse», si sentiva dire.
Schiavi della solitudine è ambientato in tempo di guerra ma non a Londra, dove la vita era più pericolosa ma anche più facile rispetto a fuori. C’erano ristoranti per chi se li poteva permettere, negli hotel di lusso la gente ballava. Una signora anziana mi raccontò: «Era tutto meraviglioso, capisci? Le uniformi stupende, e un mucchio di uomini da ogni dove. Per qualunque ragazza appena bellina è stato un momento magnifico». Un ufficiale americano, che aveva compiuto molte missioni nei cieli tedeschi, diceva che tra uno sgancio di bombe e l’altro lui e i commilitoni andavano a ballare tutte le sere negli alberghi londinesi. Si era divertito da matti. Un modo tutto nuovo, non c’è che dire, di interpretare «il periodo più bello della mia vita».
Ma queste piacevolezze erano sconosciute nelle cittadine fuori Londra, dove la gente tirava avanti come poteva nel corso di una guerra che sembrava non finire mai. «Una volta c’è stata una Guerra dei trent’anni, no? Una Guerra dei cent’anni... perché non dovrebbe toccare anche a noi?».
La loro guerra era buia, opprimente, fredda... e interminabile. Ma qualche affittacamere apprezzava le restrizioni imposte dal periodo: alle Rosamund Tea Rooms - un tempo vera sala da tè (con un nome che da solo basta a ravvivare ricordi di brutte pensioni e alberghi pidocchiosi) - la padrona ha tolto le lampadine dai portalampade, così che i residenti sono costretti a usare le torce elettriche anche dentro oltre che fuori, nell’oscurità delle vie. Miss Roach, la paziente e bistrattata protagonista, non si sofferma granché sulle fortune del conflitto, gli imperi annientati, le città in rovina, i gelidi mari pieni di morti: per lei la guerra è tutta logoramento e far senza. «La guerra [...]andava lentamente, furbescamente, un mese dopo l’altro, una settimana dopo l’altra, un giorno dopo l’altro, svuotando gli scaffali dei negozi; [...]rubacchiava sigarette dai tabaccai, dolcetti dai pasticcieri, carta, penne e buste dalle cartolerie, viti e bulloni dalle ferramenta [...]birra e alcolici dai pub e così via, all’infinito… mentre allo stesso tempo sottraeva gradualmente stoviglie alle tavole calde, ringhiere ai luoghi familiari, mezzi di trasporto alle strade, camere agli alberghi, e posti a sedere e perfino in piedi ai treni».
Mi torna in mente una donna che rilesse ad anni di distanza i propri diari del tempo di guerra e si rese conto di non aver mai accennato ai grandi eventi come la battaglia di Stalingrado o l’assedio di Leningrado. Aveva scritto dell’oscuramento, delle file per un pezzetto di carne fuori razione, o per qualche caramella. La cupezza generale è ravvivata da un militare americano, il tenente Pike, nato per incarnare la vecchia frecciata Over-paid, over-sexed and over here. Tra questi inglesi fiaccati dalla guerra lui è grosso, florido, generoso, imprudente, bonario e sempre disponibile alla bisboccia. Tra i suoi eccessi emotivi c’è la compulsione a chiedere a ogni donna che incontra di sposarlo, e tra queste c’è Miss Roach, che ha trentanove anni ma già da tempo - per ricorrere al vecchio modo di dire - ha «abbandonato la speranza». Stranamente tuttavia, per quanto «disperata» la protagonista ha da poco ricevuto una proposta di matrimonio da «un uomo [...]impossibile, che pure aveva intuito le sue possibilità»; la pensosa e rassegnata tristezza con cui lo respinge si deve al fatto che la signorina ha ben presente «la gioia che proverebbe ricevendo, allora come in qualunque altro momento della vita, una proposta ragionevolmente accettabile».
C’è da stupirsi che la «disperata» Miss Roach si entusiasmi per le trascurate attenzioni del tenente, la cui ebbra e generalizzata munificenza rinfranca il morale di tutta questa comunità di persone stremate?
Questo romanzo contiene due dei più sgradevoli personaggi di Patrick Hamilton. Uno è Mr Thwaites, un prepotente la cui vittima preferita è proprio Miss Roach, e una ragazza tedesca, Vicki, fervente quanto occulta nazista, intrigante, avida e maligna. Entrambi sono del tutto indifendibili, a meno che non siano troppo stupidi per capire quanto sono malvagi. Messe insieme, le loro vessazioni spingono la mite Miss Roach alla violenza, e alla fine della storia lei si ritrova a letto in un bell’albergo londinese, costretta a lasciare le Rosamund Tea Rooms, e all’indomani comincerà a cercarsi un posto dove vivere in quella città sovraffollata. Non sa niente del «Blitz di febbraio che di lì a poco avrebbe investito Londra», di ordigni volanti, razzi, delle bombe atomiche che porranno finalmente termine alla guerra, e dopo molte timorose riflessioni, spera di «disporre la mente al sonno».
«Che Dio ci aiuti, che Dio ci aiuti tutti, proprio tutti, tutti quanti». Così si conclude questo dolente romanzo; con una frase che potrebbe fare da esergo a tutti i romanzi di Patrick Hamilton.
È lecito domandarsi quali terribili vessazioni avesse patito in prima persona, per arrivare a scrivere così bene di queste vittime, Miss Roach, George Harvey Bone, e gli altri che si dannano per sopravvivere quando hanno tutto contro?
La sua Londra è scomparsa, ma non così le persone perbene, onorevoli e sensibili condotte alla pazzia dalla fredda cupidigia, dai mascalzoni, dai prepotenti e dagli stupidi.
È scomparsa al punto che potremmo chiederci se quelli di Hamilton si possano definire romanzi storici. Ma c’è ancora qualcuno che ricorda bene il sozzo, impoverito e spietato squallore di guerra della zona di Tottenham Court Road, delle 20.000 Streets Under the Sky, oggi elegantissime e traboccanti di commerci; la frusta indecenza di Notting Hill Gate, oggi l’ultimo grido della moda; la miseria di certe pensioni e alberghetti modesti.