la Repubblica, 13 aprile 2023
Da "La mia Russia. Storie da un Paese perduto" di Elena Kostjučenko (Einaudi)
Quando avevo cinque anni ho scoperto che dovevamo morire. Tutti. Anche la mamma. Poco più tardi ho capito che lei poteva anche non morire di vecchiaia, che poteva non morire in un giorno lontano del futuro, ma in quello stesso momento e per colpa dei "banditi". Iniziai ad avere paura della sera. Di sera il male è più vicino, l’oscurità gli dà campo libero. Io mi sedevo sul davanzale e fissavo il buio. A quel modo avrei indicato a mia madre la strada di casa, pensavo, l’avrei protetta. A volte l’ansia diventava troppo forte. E allora prendevo la scatola di latta dei bottoni e li guardavo a uno a uno, come un tesoro. Scacciavano un po’ la paura.
In terza elementare li ho visti da vicino, i "banditi". Stavo tornando a casa tagliando per i cortili, non sulla via principale. La mamma me lo aveva proibito, ma io volevo sbrigarmi ad arrivare. A un certo punto vedo tre uomini, più un quarto un po’ in disparte. Nel mio ricordo indossano cappotti di pelle nera, ma è più probabile che glieli abbia messi addosso io successivamente. Uno dei tre dice un sacco di parolacce, un altro tira fuori una pistola: e piccola, nera nera. Mi infilo nel palazzo più vicino in attesa dei colpi. Sono due in tutto. Aspetto un altro po’, poi sgattaiolo fuori dal palazzo. L’uomo che era in disparte ora è a terra in una strana posa storta, e ha qualcosa di rosso dietro l’orecchio. Degli altri banditi non c’è traccia. Supero l’uomo a terra con un giro largo e corro a casa.
Non raccontai niente alla mamma. Sapevo che gli spaventi possono far fermare il cuore, e la bambina che ero voleva con tutta se stessa che lei restasse in vita. I banditi erano colpa di Eltsin, come erano colpa sua il buio fuori dalla finestra, le lunghe sere in cui la mamma tornava tardi dal lavoro e io la aspettavo a casa, e i soldi che non bastavano mai. Perché ormai lo avevo imparato, cos’erano i soldi e quanto valevano. A casa non c’era mai da mangiare. A nove anni iniziai a cantare in una specie di coro; ogni tanto davamo concerti negli ospedali e nei centri culturali. Ci pagavano: trenta rubli i coristi, sessanta i solisti. Io volevo diventare solista. Sessanta rubli erano sette forme di pane nero.
Scusa mamma, le chiedevo, se l’Urss era un posto così bello, perché non l’avete difesa? Ci hanno ingannati, mi rispondeva lei. Eltsin ci ha ingannati. Cominciai a guardare il telegiornale con una gran rabbia addosso. Aspettavo di sentire che Eltsin era morto. Al Tg l’avrebbero detto di sicuro. Però non moriva mai. Morivano gli altri. I funerali in quegli anni erano una consuetudine, e nel cortile di casa nostra c’era sempre qualche bara coperta con un drappo rosso. Io mi avvicinavo e domandavo: Perché è morto?
Perché è morta? Morivano per il troppo bere, perché si impiccavano, finivano in mezzo a una sparatoria o ammazzati durante le rapine, morivano dentro a ospedali senza medicinali né medici. Mia madre non moriva, invece, il mio sguardo la proteggeva. Arrivavo a sfidare Dio, a volte. Se la mamma muore, gli dicevo, me ne vado a vivere nei boschi: che farai, tu, allora?
Ero in settima classe quando Eltsin ci fece una sorpresa. Era Capodanno, e dalla tv disse a me e alla mamma, sedute a una tavola imbandita: sono stanco, me ne vado. Non era più il presidente. Il miracolo dell’Anno Nuovo. Mia madre piangeva e rideva, e continuava a chiamare gli amici. Io pensavo: bene, adesso le cose cambieranno.
Dopo sei mesi ci furono le elezioni. Fu eletto Putin. Non somigliava per niente a Eltsin: era giovane, atletico, aveva gli occhi chiari. Gli occhi erano l’unica cosa della sua faccia che ti restava in mente. La voce aveva una particolarità: pareva sempre a un passo dal diventare un ringhio. In compenso, quando Putin sorrideva, tutti quelli che gli stavano intorno sembravano felici. Mia madre non aveva votato per lui. È del Kgb, diceva. Io sapevo cos’era il Kgb: nella nostra scala abitavano due agenti. Persone sospettose in modo maniacale, che bevevano come spugne e non salutavano mai. Non avevamo legato.
Il giorno delle elezioni scesi in cortile. Hai votato per Putin?, si chiedevano tutti tornando dal seggio. Ma certo, ovvio. Lo chiesero anche a me. Di mia madre. Dissi di no, che noi avevamo votato per i comunisti, e allora gli altri ragazzini mi dissero: i comunisti sono tutti sottoterra da un pezzo. Per poco non facemmo a botte. Credevano tutti che Putin li avrebbe difesi. Poco prima delle elezioni in alcune città erano saltati in aria dei palazzi. E avevamo imparato la parola "terrorismo". La notte gli uomini del nostro palazzo facevano i turni di guardia perché non ci mettessero le mine nell’androne. Dobbiamo uccidere tutti i terroristi fino all’ultimo, diceva Putin, così le case smetteranno di saltare in aria.
Lui iniziò una nuova guerra in Cecenia, io iniziai a lavare le scale. Ero quasi adulta e volevo guadagnare qualcosa per far stancare meno mia madre. Ma era così faticoso che tornavo a casa e facevo come lei: mi mettevo sul divano con le scarpe addosso per "dar tregua" alle gambe. La mamma non mi sgridava. Il televisore funzionava sempre peggio, e dalla filigrana in bianco e nero quasi non si distinguevano le facce. Cominciai a leggere i giornali: li trovavo a scuola, in biblioteca. Me ne innamorai: l’immagine non cambiava e potevi pensare mentre leggevi. A un certo punto andai io stessa a lavorare in un giornale. Mi pagavano più o meno quello che prendevo per lavare le scale. Scrivevo di chi falsificava i biglietti del bus, degli adolescenti in ospedale, degli skinhead appena apparsi in città. Ero orgogliosa di scrivere cose "da grandi" e mi credevo una giornalista.
Poi un giorno, per caso, mi capito di comprare la Novaja Gazeta. Aprii il giornale: c’era un articolo sulla Cecenia. Scrivevano di un ragazzino che aveva proibito alla madre di ascoltare le canzoni russe alla radio. I soldati russi avevano portato via suo padre e gli avevano restituito il cadavere con il naso mozzato. Nell’articolo c’erano delle strane parole: "rastrellamento", "punto di filtraggio". Nel villaggio di Mesker-Jurt i russi avevano ucciso trentasei persone. Un uomo era stato crocifisso, inchiodato per le mani. Ma era sopravvissuto. L’articolo era firmato: Anna Politkovskaja.
Sono andata subito nella biblioteca di zona e ho chiesto tutti gli arretrati. Ho cercato i suoi articoli. Li ho letti tutti. Avevo l’impressione che mi si alzasse la febbre: continuavo a toccarmi la fronte, ma era fredda, sudata, morta. Capii che del mio Paese non sapevo niente. Che la tv mi aveva ingannata. Mi sono sentita addosso quella sensazione per diverse settimane. Leggevo, passeggiavo nel parco, tornavo a leggere. Avrei voluto parlarne con un adulto, ma non ce n’erano di adatti: credevano tutti al televisore. Ce l’avevo a morte con la Novaja Gazeta. Mi aveva tolto la verità collettiva, e una verità mia non avevo ancora fatto in tempo a costruirmela. Ho quattordici anni, pensavo, e mi sento invalida. Decisi che avrei lavorato per la Novaja Gazeta. Dopo qualche anno ci sono riuscita.