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 2023  aprile 13 Giovedì calendario

Il tramonto dell’intellettuale impegnato

Davvero un vasto programma quello di analizzare le relazioni tra «politica e cultura in Italia negli ultimi trent’anni». Innanzitutto, per la complessità del tema e la frammentazione che lo contraddistingue dopo la scomparsa della figura dell’intellettuale organico ai partiti e alle ideologie di cui era il “sacerdote terreno” (dato il loro carattere, per molti versi, di religioni secolarizzate). Ma bisogna proprio riconoscere che l’ultimo interessante libro Giorgio Caravale, provocatoriamente (ed eloquentemente) intitolato Senza intellettuali (Laterza), ha centrato l’obiettivo. E ha così avviato una discussione – «sì, il dibattito sì» (per rovesciare il famigerato “anatema” nannimorettiano) – che, sul tema, di recente ha prodotto anche un partecipato appuntamento dei prestigiosi seminari di “casa (editrice) Laterza”.Caravale, riconosciuto storico modernista dell’Università Roma Tre, ha deciso di cimentarsi con un tema alquanto contemporaneo e su cui mancava una fotografia tanto completa e dettagliata quale quella da lui proposta. All’insegna di un approccio molto “laico”, che constata il tramonto irreversibile e l’archiviazione definitiva “senza” particolari nostalgie e “senza” via di ritorno (a proposito delle numerose assenze che costellano questo processo) dell’engagement. Nel clima di opinione della “Grande trasformazione postmoderna”, il discredito generale delle élite e dei corpi intermedi, sparso a piene mani da una molteplicità di soggetti e fenomeni – dal populismo e dall’antipolitica (appunto) alla disintermediazione –, ha finito per accomunare, seppure in modi diversi, il politico e l’intellettuale. Il tutto in un contesto storico che, dalla fine della Prima Repubblica (la «Repubblica dei partiti», come la definì Pietro Scoppola) in poi, ha visto la politica rinunciare sempre più, in maniera deliberata, all’«elaborazione culturale» (anche nel campo delle culture politiche) e, per contro, il mondo intellettuale estraniarsi massicciamente dalla politica per rinchiudersi all’interno delle proprie – nel frattempo mutate – dinamiche professionali e “di ceto”.Quella che diventerà «la politica senza intellettuali» ha preso le mosse dalla crisi del modello gramsciano dell’egemonia. Caravale individua alcuni snodi centrali nella disarticolazione del progetto egemonico culturale del Pci, che porteranno a far circolare nel discorso pubblico l’idea di una netta contrapposizione tra la società civile e il ceto dei politici di professione. Una dicotomia che parte da sinistra e, prendendo varie altre forme, si imporrà poi definitivamente nell’immaginario collettivo, per giungere sino ai nostri giorni. Ci sono soprattutto due tappe di rilievo in tal senso. Una consiste nella formazione, tra gli anni ’60 e ’70, del gruppo parlamentare della Sinistra indipendente, inventato dall’ex presidente del Consiglio del governo di unità nazionale post-Liberazione Ferruccio Parri, il quale (dal 1963) animava anche la rivista L’Astrolabio, punto di riferimento per eccellenza della sinistra non comunista (su cui scrivevano, tra gli altri, Mortati, Jemolo, Galante Garrone e Sylos Labini). Un’"avventura politica” finalizzata a far entrare in Parlamento personalità di sinistra non inquadrate nei ranghi dei partiti, che possedevano delle forti radici nella stagione della Resistenza e potevano portare nell’emiciclo una ventata di moralizzazione. Un’altra tappa è la nascita, nel ’76, del quotidiano la Repubblica, che inflisse un altro colpo letale al paradigma delle relazioni fra politica e cultura declinato secondo le liturgie tradizionali del Pci. Il suo fondatore Eugenio Scalfari aveva “sfilato” l’intellettuale dall’utilizzo esclusivo nell’ambito delle pagine culturali per trasformarlo in editorialista politico – ed Enrico Berlinguer aveva compreso come il nuovo giornale stesse lavorando per entrare negli equilibri dello schieramento progressista e orientare direttamente l’opinione pubblica. E, non casualmente, Scalfari attinse in modo significativo proprio agli esponenti della Sinistra indipendente per comporre il proprio parco di opinionisti. Nel trapasso dalla Prima alla Seconda Repubblica saltò così per aria tutta la precedente architettura dell’intreccio tra politica e cultura, dalla quale era derivato, tra i tanti, anche il fenomeno della lottizzazione partitica delle cattedre universitarie di storia contemporanea (che si nascondeva dietro l’etichetta delle «scuole storiografiche»). Ma il «cambio di regime» successivo al terremoto delle inchieste di Mani Pulite ha fatto sì – sia pur detto senza anacronistici nostalgismi – che si “gettasse il bambino con l’acqua sporca” (e, nella fattispecie, si arrivasse alla cornice di una «politica senza storia» e, dunque, priva in troppi casi di memoria). Si è così delineato lo scenario di una “tempesta perfetta”. Di fronte al trionfo del berlusconismo, tutta una parte della cultura di sinistra, che si è sentita abbandonata dai riferimenti politici (ai quali ha contrapposto, spesso con durezza, la narrazione della superiorità morale della società civile), ha accentuato dei tratti di «autoreferenzialità e massimalismo». E la strumentalità – e non sempre a senso unico – è divenuta la modalità relazionale normale tra leader politici e figure della cultura, mentre i saperi umanistici entravano drammaticamente in affanno di fronte al cambiamento sociale e all’emergere dei tecnici (in primis, giuristi ed economisti) con responsabilità e potere politico in prima persona. Da Bertinotti a Renzi, da Fini a Salvini è andato imponendosi il modello dell’intellettuale ad personam, salvo, poi, il consumarsi in varie circostanze di rotture e litigi irreparabili. Di fronte al crescere delle difficoltà nel fare carriera accademica, alcuni (più o meno) giovani professori – specie a sinistra – hanno fatto il salto in politica, mentre altri, già affermati, si sono convertiti in “intellettuali mediatici”.Un cortocircuito, arrivati a questo punto, difficilmente superabile. A meno che, come indica in conclusione l’autore, la politica intenda superare la «pregiudiziale antintellettuale» che ha costruito nel frattempo, e il mondo accademico possa (e voglia) superare la «soffocante logica corporativa» in cui si è trincerato. Un (assai) vasto programma, di nuovo…