il Fatto Quotidiano, 13 aprile 2023
Intervista a Pasquale De Sena
Pasquale De Sena, professore ordinario di Diritto internazionale all’Università di Palermo e presidente della Società italiana di Diritto internazionale e dell’Unione europea, è tra i promotori dei referendum della Commissione DuPre contro l’invio delle armi in Ucraina.
Condivide i dubbi sull’ammissibilità costituzionale dei quesiti?
Nascono da un’interpretazione dell’articolo 75 della Costituzione, il quale elenca le categorie di leggi che non possono essere sottoposte a referendum. Tra di esse ci sono quelle “di autorizzazione a ratificare trattati internazionali”. Ma i nostri referendum abrogativi riguardano l’articolo 1 del decreto legge del 2 dicembre 2022 n. 85 (convertito in legge con la l. n. 8 del 27 gennaio 2023). Ebbene, quell’articolo non è esecutivo di obblighi imposti da alcun trattato internazionale: né del trattato sull’Unione europea, né del trattato Nato.
Quindi i discorsi sull’ammissibilità sono fuori fuoco?
Lo sono. La ratio dell’articolo 75 della Carta è evitare che lo Stato, per effetto di un referendum, si trovi in una situazione di responsabilità derivante dalla violazione di un obbligo giuridico internazionale: non è questo il caso. Ricondurre il decreto Ucraina al trattato sull’Ue o al trattato Nato è un errore crasso, su questo non c’è possibilità di smentita.
Esclude che la Consulta possa comunque bocciare i quesiti?
C’è da aggiungere che la Corte costituzionale, nella sua giurisprudenza, ha esteso l’articolo 75 anche alle leggi produttive di “effetti strettamente collegati all’ambito di operatività dei trattati”. Si trattava – nei casi in cui ciò è avvenuto – di norme di esecuzione dei trattati comunitari. È un’interpretazione estensiva, ma sempre confinata all’ipotesi che certe norme interne fossero necessarie all’adempimento di obblighi internazionali. A me sembra davvero difficile che si possa considerare l’art. 1 del decreto Ucraina come una norma la cui abrogazione implichi la violazione di un trattato internazionale. Beninteso: non è escluso che la Corte vada anche al di là di una simile interpretazione; ma, a mio avviso, la forzatura sarebbe evidente.
Uscendo dal diritto, è opportuno chiedere il parere del popolo su una questione di politica estera?
Il problema non è tanto chiedersi se sia opportuno, quanto piuttosto domandarsi se non sia l’extrema ratio. È l’ultima occasione del popolo italiano per far sentire la sua voce. Ciò perché il Parlamento ha obbiettivamente giocato un ruolo marginale: in particolare, non è mai stata fatta una discussione sul tipo di armi inviate, a differenza di quanto avvenuto in Germania. Il referendum è uno strumento delicato da usare su questioni di politica internazionale, ma è anche l’ultimo rimasto, in relazione a questo caso specifico.
Perché oltre ai quesiti sulle armi ce n’è uno sulla sanità pubblica?
È una scelta di carattere politico. La decisione di contribuire militarmente, e in questa misura, alla difesa dell’Ucraina è chiaramente dissonante rispetto alle difficoltà del servizio sanitario nazionale. Accoppiando i due quesiti si intende mettere in luce una circostanza precisa: è solo parzialmente vero che non ci siano i soldi per la sanità; la verità è che molti soldi vengono dirottati, sulla base di scelte politiche consapevoli e non vincolate, ad altri fini. Sono decisioni legittime, ma senz’altro discutibili; e quindi è bene che siano ampiamente discusse, anche tramite un referendum.
Quali sarebbero i tempi per arrivare al voto?
La Consulta si dovrebbe pronunciare sull’ammissibilità in autunno o al massimo tra gennaio e febbraio 2024. La celebrazione del referendum dovrebbe aver luogo tra aprile e giugno.
Non è troppo tardi?
Personalmente lo spero. Ma temo che la guerra sia destinata a durare ancora a lungo. Non mi pare ci siano prospettive di chiusura a breve.
Il referendum è uno strumento che negli anni si è usurato, non rischia di diventare un boomerang per i pacifisti?
Ripeto: il ricorso al corpo elettorale è stato in qualche modo la conseguenza del ruolo marginale giocato dal Parlamento. E alla marginalizzazione del Parlamento, ha fatto riscontro una vera e propria strozzatura del dibattito pubblico, se si pensa che sui media principali del Paese chiunque si sia mostrato critico con le scelte del governo è stato sospettato – se non tacciato – di essere favorevole alla Russia. Una strozzatura francamente inammissibile.