il Giornale, 13 aprile 2023
Intervista a Sonia Bergamasco
Ha vent’anni, il diploma del Conservatorio – che non ha scelto – in tasca, un papà scomparso per un ictus a 48 anni e un carattere introverso e silenzioso. Legge casualmente il bando della nuova Scuola di Teatro del Piccolo di Milano e si iscrive, senza dire niente a nessuno. Così inizia la storia d’attrice di Sonia Bergamasco – milanese, classe 1966, moglie da 28 anni di Fabrizio Gifuni con il quale ha due figlie – che rievoca questo e altri debutti nel suo recentissimo Un corpo per tutti. Biografia del mestiere di attrice (Einaudi, pagg. 142, euro 16). Scritto in una lingua originale e seducente (la Bergamasco è anche poetessa, sua la raccolta Il quaderno, per La nave di Teseo), filosofico più che pedagogico, il libro è anche una chiave per decifrare una personale selezione del teatro e dei suoi giganti che la Bergamasco ritrae con spudorata ingenuità e sguardo intimo, con incursioni nel cinema e nella tv: in palcoscenico ha lavorato con Strehler, Carmelo Bene, Massimo Castri, Theodoros Terzopoulos, Antonio Latella – regista che la dirigerà presto in La locandiera – ma si è anche fatta conoscere al grande pubblico con La meglio gioventù di Giordana, di recente si è vista in Quo vado di Checco Zalone e in Grazie ragazzi di Riccardo Milani ed è pur sempre stata Livia, la fidanzata di Montalbano.
Il volume è un prodotto singolare, in cui protagonista è il corpo dell’attore e le sue trasformazioni: non è un manuale, non ci sono regole da seguire o teorie da imparare, e non è un metodo, perché parlando con l’attrice si capisce subito che quel che cerca non è diventare un «Maestro» per ciò che ha trovato, ma piuttosto per ciò che continua a cercare.
Come dobbiamo definire il suo libro?
«Vorrei soprattutto che non lo si chiamasse memoir. È scritto su commissione di Ernesto Franco di Einaudi, voleva un libro che parlasse del mio mestiere, ma fosse per tutti. Non ho necessità di scrivere, ho solo voglia di lavorare: se racconto di me lo faccio per parlare del mestiere di attore. Il memoir poi ferma, sclerotizza. Ed è l’ultima cosa che voglio».
Partiamo dagli inizi: i suoi sono stati davvero casuali.
«Non c’era nessuna esperienza precedente. Nemmeno come pubblico».
Alla fine del suo provino, venne da lei la Lazzarini a dirle che il suo «modo musicale» di recitare l’aveva sorpresa. Che effetto le facevano questi «grandi»?
«Ero attratta e spaventata. Attratta dall’estroversione espressiva, dalla capacità di questi corpi di esprimersi senza veli, senza reticenze, anzi, di giocare in quest’espressione in maniera impudica. Almeno dal punto di vista di una ragazza che invece era chiusa, trattenuta. Spaventata perché quella era la ricerca a cui andare incontro, però non riuscivo ancora a farlo. Attrazione e repulsione: tipico mio».
Poi qualcosa è cambiato: è arrivata addirittura a un rapporto erotico con il teatro.
«Per questo è necessario un percorso di conoscenza e autoconoscenza, di ascolto. Motivi personali, di storia familiare, mi avevano portato a un corto circuito: volevo riuscire a esprimermi, ma non sapevo come».
«Esprimersi», parola che nel libro scrive in corsivo: un desiderio potente.
«Una forma di liberazione e anche una cura, un’autoterapia. Prima di arrivare al gioco, al godimento, all’erotismo bisogna guadagnarselo sul campo, abbandonando tutte le difese del corpo e della psiche. Ognuno deve trovare il proprio specchio in cui riflettersi, i punti di svolta e di liberazione possibili: non ci sono ricette che valgono per tutti. Ogni corpo è un corpo a sé».
Come si attiva l’ascolto del corpo?
«Io ho fatto una scuola e le scuole sono una pratica sacrosanta di tanti giovanissimi che desiderano cominciare. Ci sono molti esempi anche famosi e illustri di artisti che le scuole non le hanno fatte, sono saltati nel gioco attraverso il lavoro e hanno trovato le loro risposte. Non so quanto la scuola sia indispensabile: dipende dagli incontri, dai maestri».
Lei ne ha avuti tra i maggiori. Un ricordo di Strehler.
«La grande emozione dell’inizio: l’ingresso in quel mondo. Entrare da milanese quale io sono in un luogo che, pur essendo ignorantissima e non avendo mai frequentato teatri, sapevo essere il luogo del teatro a Milano. Questo grande vecchio che all’ultimo provino era presente per sceglierci, noi giovani sul palco con la sottogonna, quel tavolone al centro del teatro Studio in cui stavano Lazzarini, Graziosi, Strehler: è stata la prima grande emozione della scena. Nei tre anni successivi la personalità di Strehler si è fatta sentire: l’ho vissuta come una figura spaventosa per irruenza e potenza espressiva. Mi faceva paura, mi affascinava terribilmente».
Un ricordo di Carmelo Bene.
«Con Carmelo ho ritrovato l’attenzione per la lingua musicale. Il fatto che sapesse che ero pianista è stato decisivo nella sua scelta di lavorare con me. Con lui ho affrontato i testi. Non solo quelli da dire, ma i suoi testi: Leopardi, D’Annunzio, Dante, Campana, De Saussure. E poi Schopenhauer: ogni cinque anni lui lo rileggeva tutto e a Otranto ha voluto che lo leggessi con lui. Testi di linguistica e di filosofia, perché credeva che fossero essenziali per un percorso insieme, per riuscire a parlarsi con un linguaggio comune».
Carmelo Bene non le faceva paura?
«Carmelo Bene era la paura. Ma era anche oltre la paura: era feroce, ma estremamente umano, simpatico e anche semplice. Non ho avuto difficoltà con lui se non le estreme difficoltà di una persona che ti chiede sempre l’impossibile e ti fa sentire sempre inefficace. Ma questo per me è stato uno sprone, un viaggio bellissimo, mi sono divertita. Fino al Pinocchio, nel 1998: un risultato gioioso».
Eppure aveste uno scontro titanico, proprio sulla voce.
«Perché mi chiedeva di seguire la sua, di musicalità. Lo avrei anche fatto, ma in quel momento mi riusciva impossibile. Gli ho fatto capire che non avrei avuto problemi a lasciare il lavoro per fare chiarezza, non lo ha accettato e si è ribellato. Chissà cosa voleva sempre veramente, se lo scontro per lo scontro o altro, non ero nella sua testa, ma non me lo chiedo più: so che ho reagito e non mi sono pentita».
E ora anche lei è regista.
«Sto lavorando a un mio documentario su Eleonora Duse. Un ritratto plurale al presente dell’attrice, oggi. L’ho incontrata per la prima volta alla scuola: un suo grande ritratto che vedevo ogni giorno. Così forte e fragile e capace di autodeterminare la propria storia attraverso fatica e sofferenza leggibili. Mi sono sentita portare dall’energia creativa sprigionata anche solo dalle testimonianze, perché di lei di guardabile rimane un film muto e fotografie a migliaia».
Una delle immagini che percorrono il libro è quella del funambolo, presa a prestito dalla figura di Philippe Petit.
«Rappresenta il gioco estremo interiore dell’attore, anche se non ci sono scene fisicamente conturbanti o pericolose. Da una parte c’è la tecnica, ma dall’altra il tuo corpo, uno strumento vivo che nei rari momenti di grazia, quando non si percepisce più chi fa cosa, senti attraversato. Una parte misteriosa, forgiata da una forma di abbandono, parola cara anche a Carmelo Bene».
A volte il funambolo cade: racconta che in Chi ha paura di Virginia Woolf ha avuto un terribile vuoto di memoria in scena.
«Sarà durato una manciata di secondi, ma per me è stata un’eternità. Quei secondi riconducono alla presenza radioattiva dell’attore in scena per come la vivo io: uno stato alterato di coscienza, per cui perdere la parola o la linea interiore del gioco è come rischiare di precipitare in un canyon. Uno sguardo sul baratro che non auguro a nessuno».