Corriere della Sera, 13 aprile 2023
Il martirio inventato contro gli ebrei
Il Venerdì Santo del 1475 (24 marzo), al temine delle funzioni religiose, mastro Andreas Unferdorben si avvicinò al principe vescovo di Trento Johannes Hinderbach – un umanista, già segretario di Federico III nonché grande amico di Enea Silvio Piccolomini futuro papa Pio II – e gli chiese di aiutarlo a ritrovare il figlio Simone scomparso la notte precedente. Ma nelle ore successive il bambino, che aveva due anni e mezzo, non fu ritrovato. Il giorno successivo, sabato vigilia di Pasqua, mastro Andreas suggerì al podestà Giovanni de Salis di «inviare i suoi servi nelle case degli ebrei» dal momento che «aveva sentito in molte parti della città che durante questi giorni sacri gli ebrei cercano, in segreto, di rapire bambini cristiani e ucciderli». Il podestà guidò i suoi uomini alla casa di Samuel, capo della comunità ebraica, ma la loro ricerca non ebbe successo. A trovarlo, morto, nella cantina collegata ad un fossato esterno della casa di Samuel, furono l’indomani (domenica di Pasqua) gli stessi ebrei che informarono l’autorità cittadina. Qualcuno riferì di aver notato sul cadavere tracce ematiche. Dettaglio importante dal momento che «i cristiani vedevano in questo un segno divino, perché credevano che le vittime uccise da poco sanguinassero alla presenza dei loro assassini», scrive Ronnie Po-chia Hsia, storico nato a Hong Kong poi trapiantato negli Stati Uniti, in Trento 1475. Storia di un processo per omicidio rituale, che esce il 21 aprile da Giuntina. Il libro di Po-chia Hsia è da tre decenni un classico sulle origini dell’antisemitismo cristiano moderno, ma solo adesso potrà essere letto in italiano. Il podestà ordinò che il corpo di Simonino fosse trasportato nella chiesa di San Pietro e fece arrestare Samuel assieme ad altri cinque israeliti.
Gli imprigionati vennero sottoposti alla tortura della «strappada». La vittima aveva le mani legate dietro la schiena con una lunga corda e veniva poi sollevata in alto da una carrucola; lasciato penzolare a diversi metri da terra, l’imputato si trovava così davanti al giudice, assistito da uno scrivano, che riportava il dialogo, e dal carceriere che fungeva da torturatore. Al trattamento fu sottoposto anche l’ottantenne Moses, il quale raccontò che trentacinque anni prima, nel 1440, a Merano qualcuno «aveva collocato» un bambino morto nella casa di un ebreo. In quell’occasione il capitano incaricato delle indagini aveva capito che si trattava di una macchinazione e aveva tratto in arresto il cristiano responsabile d’averla ordita.
Stavolta però le cose andarono diversamente. Gli ebrei furono torturati, costretti a parziali ammissioni e alla fine uccisi. Già dal mese di maggio il principe vescovo Hinderbach promosse il culto del martirio del piccolo Simone, al quale nel giro di poco più di un anno furono attribuiti centoventinove miracoli. Questo culto produsse numerosi episodi di violenza contro gli ebrei. Il doge di Venezia Pietro Mocenigo fu il primo ad allarmarsene e a mettere in dubbio la veridicità del racconto.
In soccorso del principe vescovo intervenne però il bresciano Giovanni Mattia Tiberino, uno dei medici che avevano esaminato il corpo del bambino subito dopo il suo ritrovamento. Tiberino scrisse una lunga lettera in elegante latino classico indirizzata al Senato e al popolo di Brescia in cui paragonava le sofferenze del piccolo Simone a quelle inflitte a Cristo. Il testo di quella lettera trasformato in un opuscolo, scrive Po-chia Hsia, «divenne l’opera di propaganda antigiudaica sull’omicidio rituale di Trento», non soltanto perché Tiberino era un medico, ma per il fatto che quell’epistola, in virtù di una «notevole esibizione di retorica», costruiva «una storia di pathos e di verosimiglianza». A fine giugno, come si è detto, furono condannati a morte nove uomini, tra cui il vecchio Moses che si era già tolta la vita. Due dei condannati all’ultimo minuto chiesero il battesimo che fu loro accordato. Ma subito dopo il battesimo furono entrambi decapitati.
A questo punto ci fu però un imprevisto. Papa Sisto IV (il francescano Francesco della Rovere) in luglio chiese al principe vescovo Hinderbach di sospendere la promozione del culto di Simone e di sottoporre le «prove» alle verifiche di un suo inviato, Battista de’ Giudici, vescovo di Ventimiglia. De’ Giudici offriva garanzie di «imparzialità» dal momento che era stato sì mandato ad indagare su quel caso, ma «predicava e scriveva spesso contro gli ebrei e non aveva mai, in tutta la sua vita, condiviso un pasto o una bevanda con un ebreo». In realtà pensava – come il Papa, del resto – che quella storia fosse tutta una montatura. Giunto a Trento ai primi di settembre, de’ Giudici fece interrogare dai suoi assistenti tre o quattro testimoni degli «eventi straordinari» attribuiti a Simone e scoprì che i presunti miracoli erano descritti in una maniera «mendace, fraudolenta e ingannevole». Volle allora esaminare gli atti originali del processo, ma Hinderbach si oppose (poi però dovette arrendersi). Chiese di poter parlare con gli ebrei che erano ancora in prigione, ma anche stavolta gli fu risposto di no. In una lettera del 26 settembre, scritta – precisò – in «conformità con il mandato papale», de’ Giudici chiese a Hinderbach, pur in «tono amichevole», di liberare gli ebrei ancora imprigionati. Ebrei che erano – a suo avviso nonché ad ogni evidenza – innocenti.
La reazione di Hinderbach fu di nominare un proprio inviato, il frate domenicano Heinrich di Schlettstett, perché raccogliesse nel Sud della Germania «prove» di casi analoghi verificatisi in precedenza. L’emissario si diede da fare per tutto il mese di ottobre. Ai primi di novembre de’ Giudici tornò alla carica chiedendo che fossero liberati donne e bambini ebrei. I trentini provarono a tirarla per le lunghe, ma alla fine misero in libertà i bambini. A fine novembre Hinderbach accusò l’inviato del Papa di aver «accettato soldi dagli ebrei». A questo punto Sisto IV nominò una commissione speciale che si occupasse del caso.
Hinderbach corse ai ripari spedendo due suoi emissari, Wilhelm Rottaler e Approvino degli Approvini, da Cristoforo della Rovere, un arcivescovo nipote del Papa destinato ad essere elevato alla porpora cardinalizia. Fu Cristoforo della Rovere ad informare i suoi interlocutori che de’ Giudici non era più nelle grazie di papa Sisto e che il Pontefice non voleva essere costretto a scegliere tra l’uomo che aveva mandato a Trento e il principe. I due inviati di Hinderbach ottennero qualche risultato nel senso che il Papa – pur convinto in partenza che quella di Trento fosse stata una messa in scena – assunse una posizione intermedia, ribadì la proibizione a ogni cristiano di «uccidere o mutilare gli ebrei» ma autorizzò il «culto di Simonino». Culto che poté crescere anche per l’impegno dei francescani.
Dopo la sconfitta della sua causa nella Curia, de’ Giudici lasciò Roma per diventare governatore di Benevento. Prestò poi servizio, nel 1480, come legato papale in Francia e alla fine tornò nelle grazie della corte papale. Gli fu promesso, nel 1484, l’arcivescovato di Patrasso, ma morì quello stesso anno prima di assumere il nuovo incarico. Pochi mesi più tardi, nell’agosto di quello stesso 1484, morì anche Sisto IV. Due anni dopo scomparve Hinderbach, ossessionato fino al suo ultimo giorno di vita dal progetto di canonizzazione di Simone. Senza poter vedere, scrive Po-chia Hsia, «il suo piccolo martire elevato alla santità». Ma avendo in buona sostanza vinto la partita.
Simonino continuò a «vivere» a lungo. A Trento, una cappella in San Pietro fu dedicata al suo «martirio». Promosso dai Francescani Osservanti, il suo culto si diffuse in molte comunità dell’Italia settentrionale e della Germania del Sud. Nel corso del Concilio di Trento (1545-1563) la cappella dedicata a Simonino fu meta per molti dignitari ecclesiastici. Nel 1588 papa Sisto V autorizzò il culto locale del bambino scomparso alla viglia di Pasqua del 1475.
Léon Poliakov nella Storia dell’antisemitismo. Dalle origini del cristianesimo all’Europa del Cinquecento (Bur) stabilì un rapporto tra questa incredibile storia e la predicazione di san Bernardino da Feltre. Un santo, scriveva Poliakov, lodato dai biografi «per non essere caduto nelle bizzarrie tipiche dei predicatori della sua epoca, e per non essersi abbandonato ad apocalittiche profezie di guerre, flagelli e altre sanguinose calamità». Tant’è che si asteneva dal profetizzare. «Eccetto che sugli ebrei». Così, predicando a Trento, avvertiva i fedeli del pericolo ebraico, e precisava che «non passerà la festività della Pasqua senza che voi ne sappiate qualcosa». Tutto ciò alla vigilia della vicenda che riguardò il piccolo Simone. Anche se, precisava Poliakov, è impossibile dire se il caso «sia nato spontaneamente in seguito alla predicazione del beato o se in qualche modo questi vi fu coinvolto più direttamente».
Ai primi del Settecento il protestante tedesco Christof Wagenseil pubblicò un trattato in cui metteva in dubbio la realtà dei presunti omicidi rituali. Massimo Introvigne in Cattolici, antisemitismo e sangue. Il mito dell’omicidio rituale (Sugarco), si è soffermato sulla circostanza che nel 1759, tre secoli dopo i fatti di Trento, il cardinale Lorenzo Ganganelli (futuro papa Clemente XIV) raccomandò al Sant’Uffizio di non prestare fede alle false accuse contro gli ebrei. Avanzando l’ipotesi che quelle storie di israeliti infanticidi fossero nient’altro che leggende. Simili, tra l’altro, a quelle dei pagani contro i primi cristiani. A fine Ottocento il teologo protestante Hermann Strack e lo storico israelita Moritz Stern diedero alle stampe studi che confutavano i processi agli ebrei per omicidio rituale. A quel punto, nel 1902 un sacerdote di Trento, il canonico Giuseppe Divina, scrisse una Storia del beato Simone da Trento, in cui ribadiva la piena credibilità storica della ricostruzione processuale. Ma nel 1903 un brillante studente ventiduenne della facoltà di Giurisprudenza di Graz, Giuseppe Menestrina, smontò per intero quella ricostruzione.
Dovevano trascorrere altri sessant’anni prima che, all’epoca del Concilio Vaticano II, si riaffacciassero con grande vigore le tesi del cardinale Ganganelli. Il merito va in gran parte al presbitero nonché storico della Chiesa trentina, monsignor Iginio Rogger – autore della Storia della Chiesa di Trento. Da Vigilio al XIX secolo (edizioni Il Margine) – protetto da papa Giovanni XXIII. Nel 1963 Gemma Volli – con I «processi tridentini» e il culto del Beato Simone da Trento (La Nuova Italia) – addebitò quelle forme di antisemitismo alla predicazione francescana e ai tedeschi immigrati a Trento. Nel 1964 il domenicano tedesco Willehad Paul Eckert pubblicò uno studio che demoliva l’impianto storiografico dell’intera vicenda. Nel 1965, dopo il Concilio, il culto fu abolito con decreto papale. I resti del piccolo Simone furono rimossi dalla chiesa di S. Pietro.
Qualche anno fa un importante medievista dell’università israeliana di Ramat Gan, Ariel Toaff – figlio del rabbino capo di Roma Elio Toaff – scrisse un libro Pasque di sangue. Ebrei d’Europa e omicidi rituali (il Mulino) in cui – pur senza riabilitare, neanche in una riga, il culto di Simonino – non escludeva la possibilità che tra il Quattro e il Cinquecento fossero esistite frange estremiste di comunità ebraiche ashkenazite che ricorrevano all’uso magico e superstizioso del sangue a scopi rituali. Le reazioni del mondo israelitico furono a tal punto aspre che Ariel Toaff, in una successiva edizione del libro, si sentì in dovere di precisare meglio il senso di quel che aveva scritto. E di precisarne i contorni. Anche se sostanzialmente tenne il punto, con nuove argomentazioni.
All’inizio del terzo millennio è stata la Chiesa a porre una pietra tombale sull’intera vicenda. Dal dicembre 2019 all’aprile 2020 il museo diocesano tridentino di Trento ha ospitato una mostra dal titolo oltremodo significativo: L’invenzione del colpevole. Il «caso» di Simonino da Trento, dalla propaganda alla storia. La mostra si chiuse in epoca di pandemia e purtroppo, causa Covid, non ricevette per intero le attenzioni che avrebbe meritato.