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 2023  aprile 13 Giovedì calendario

I tre scenari di Xi Jinping per Taiwan

L’isola di Taiwan, «l’unica democrazia cinese» al mondo, ha vissuto giornate di massimo allarme per le incursioni dei cacciabombardieri di Pechino. Sulla terraferma Xi Jinping esorta il suo Esercito Popolare di Liberazione a prepararsi in vista di «combattimenti veri». Quali sono le sue intenzioni e quanto è probabile la guerra?
«Esiste una sola Cina, Taiwan ne fa parte», è un principio affermato dalla fondazione della Repubblica Popolare nel 1949, quando i comunisti avevano sconfitto i nazionalisti e questi ultimi si erano rifugiati sull’isola. L’America dopo il disgelo tra Richard Nixon e Mao Zedong nel 1972, e il riconoscimento della Repubblica Popolare nel 1979, ha accettato il principio, con dei distinguo: la riunificazione è accettabile solo se pacifica e consensuale. Joe Biden si è impegnato a difendere Taiwan in caso d’invasione.
Con Xi la tensione sale perché la sua Cina è sempre più nazionalista, vuole diventare la superpotenza dominante in Asia, e sembra ormai avere i mezzi per realizzare le sue ambizioni. L’opzione bellica è aperta. Xi usa ogni incontro di alto livello tra dirigenti americani e taiwanesi (l’ultimo fra la presidente dell’isola Tsai Ing-wen e il presidente della Camera Usa Kevin McCarthy in California) per delle manovre militari vicine a simulare un’invasione. L’estate scorsa, quando Nancy Pelosi visitò Taipei, i cinesi lanciarono undici missili. Stavolta la potenza di fuoco è stata inferiore però è entrata in azione la portaerei Shandong e per la prima volta i suoi jet J-15 sono penetrati nella «zona aerea di difesa» dell’isola. Sono state usate munizioni vere.
Una variante che Xi tiene aperta prevede l’uso delle forze armate ma non lo sbarco di truppe. Si tratta di un prolungato blocco aero-navale, con conseguente strangolamento economico, che punti alla resa di Taiwan senza creare al 100% il casus belli per un intervento americano.
Una terza opzione alterna minacce e lusinghe. Xi ha appena accolto con tutti gli onori l’ex presidente di Taiwan Ma Ying-jeou. Era la prima visita nella storia di un ex leader taiwanese sul continente. Ma Ying-jeou appartiene al partito nazionalista Kuomintang (Kmt) che oggi è su posizioni filo-cinesi; alcuni suoi esponenti hanno ventilato lo scenario di un Commonwealth o mercato comune che unisca l’isola alla Repubblica Popolare cominciando dall’economia, dove i rapporti sono già intensi. Se nelle elezioni del 2024 Xi riesce a favorire la sconfitta dei democratici progressisti – più autonomisti – e il ritorno al potere del Kmt, si rafforza la terza opzione e la guerra può essere inutile. A prezzo, con ogni probabilità, della futura morte della democrazia taiwanese, che farebbe la stessa fine dello Stato di diritto a Hong Kong. Questo scenario è più consono ad accreditare la Repubblica Popolare come una superpotenza pacifica, come Xi vuole fare con la sua mediazione tra Iran e Arabia (ma non, finora, per l’Ucraina).
Biden ha condannato l’ultima prova di forza di Xi contro Taiwan, ma con toni misurati. Washington ha preso atto implicitamente della relativa de-escalation rispetto all’estate scorsa quando il «castigo» per la visita della Pelosi fu più duro. D’altro lato la moderazione americana è frutto di un crescente pessimismo. I generali Usa, esaminando l’evoluzione dei rapporti di forze in Asia, dubitano che una guerra in difesa di Taiwan possa essere vinta. Di conseguenza alcuni pensano che non andrebbe mai combattuta.
In questo contesto si è inserita la visita di Emmanuel Macron. Il presidente francese parlando di Taiwan ha detto: «Sarebbe un grande rischio se l’Europa si facesse coinvolgere in una crisi che non è nostra». La sua idea di «autonomia strategica» dell’Europa dagli Usa si è spinta fino a una dissociazione sul caso Taiwan. Non è chiaro, perché Macron non lo ha precisato, se secondo lui l’Europa dovrebbe prendere la distanze dall’America in una fase di escalation di tensioni, o anche durante e dopo un’invasione cinese. Non risulta che Macron abbia lanciato a Xi avvertimenti del tipo: se invadi Taiwan adotteremo sanzioni e i nostri rapporti economici saranno compromessi. L’intervista è uscita in due versioni diverse, seguite da precisazioni dell’Eliseo. Ha suscitato un pandemonio negli Usa (soprattutto i repubblicani si chiedono perché l’«autonomia strategica» del Vecchio continente non valga nel difendere l’Ucraina) ma anche nell’Ue dove non tutti pensano che Taiwan vada abbandonata al suo destino, anche per il ruolo strategico nelle tecnologie. Un risultato: Xi Jinping sul dossier Taiwan osserva la disunione occidentale, ed è un altro punto in suo favore.