il Fatto Quotidiano, 12 aprile 2023
Le difficoltà del dollaro
Fino al marzo 2022 i tassi di interesse della Federal Reserve americana erano a zero. Poi il presidente della Fed, Jerome Powell, ha avviato una serie di aumenti portandoli fino al 4,75% con l’obiettivo di tenere a freno l’inflazione, seppure al rischio di innescare una recessione negli Stati Uniti. Gli effetti del rialzo dei tassi americani sono stati avvertiti in tutto il mondo, dalla Svizzera allo Sri Lanka, come onde dopo uno tsunami. Il precedente risale all’estate del 1979 quando l’allora guida della Fed, Paul Volcker, vicino a Reagan ma nominato dal presidente democratico Jimmy Carter, prese la decisione che segnò l’economia internazionale almeno fino alla crisi del 2008, rialzando bruscamente i tassi di interesse fino al livello astronomico del 22 per cento: il cosiddetto “Volcker shock”. Una scelta così drammatica si spiega con la crisi in cui versavano gli Stati Uniti negli anni 70; travolti dall’inflazione, dall’aumento delle importazioni di petrolio nonostante il brusco rialzo dei prezzi del 1973 (le importazioni coprivano nel 1979 il 40 per cento dei consumi americani), e dal costante deprezzamento del dollaro. Come se non bastasse, all’inizio del 1979, dopo la rivoluzione iraniana, la seconda crisi petrolifera aveva innescato nuove impennate dei prezzi del greggio, con interminabili file ai benzinai e proteste dei camionisti arrivati a bloccare gli accessi alle città. Il Cancelliere tedesco Helmut Schmidt bullizzava i “politici chiacchieroni americani che avevano lasciato l’inflazione a briglie sciolte e così minato la fiducia nel dollaro”. Carter riunì decine di intellettuali, leader politici, religiosi e sindacali in una sessione a porte chiuse e ne emerse il 15 luglio con un famoso discorso televisivo alla nazione in cui, invocando coesione e maggiore morigeratezza, ammetteva: “È chiaro che i veri problemi della nazione sono più profondi, più profondi delle file ai benzinai e delle interruzioni di energia, più profondi dell’inflazione o delle recessione”. Nonostante alcune intuizioni di Carter sulla necessità di una sviluppo più “sostenibile”, fu Volcker a segnare l’era della iper-globalizzazione. Il suo shock contribuì alla “finanziarizzazione” dell’economia mondiale, con gli attivi finanziari che passarono da un livello pari a quello della ricchezza mondiale nel 1980 a quattro volte la ricchezza mondiale nel 2007. Superata la crisi di Bretton Woods, Wall Street risucchiò negli anni 80 capitali da tutto il mondo confermando gli Stati Uniti come epicentro dei consumi planetari, e rilanciando il ruolo “imperiale” del dollaro come valuta di riserva mondiale. Alla cura ricostituente per la finanza occidentale e per il dollaro fece da contrappasso l’esplosione del debito nel Paesi in via di sviluppo (e non solo) a causa dell’aumento dei tassi d’interesse. Banca mondiale e Fondo monetario abbracciarono allora la nuova politica degli “aggiustamenti strutturali”, poi ribattezzata “Washington Consensus” all’inizio degli anni 90, basata su politiche fiscali prudenti, libero movimento di merci e capitali, privatizzazioni. I Paesi dell’America Latina, dell’Africa e dell’Asia piombarono in quella che il Presidente del Burkina Faso, Thomas Sankara, definì “una nuova forma di neocolonialismo in cui i colonialisti si sono trasformati in tecnocrati”. Nella sua autobiografia, Volcker si congratulò con sé stesso per aver apparecchiato tutti “gli ingredienti per emancipare l’America Latina dal paradigma delle economie chiuse, socialiste e dipendenti dal credito esterno”. La crisi del debito degli anni 80 ha dunque rilanciato “l’impero finanziario” americano secondo una dinamica già evidenziata da Max Weber quando diceva che “con i debiti pubblici è sorto un sistema di credito internazionale che spesso nasconde una delle fonti di accumulazione originaria di questo o quel popolo”. La nuova crisi del debito innescata dalle politiche restrittive della banche centrali per reagire alle pressioni inflazionistiche seguite prima al post-pandemia, poi alla guerra in Ucraina, non rilancerà il “Washington Consensus”, ma sembra semmai sancire il superamento di quel modello. In primo luogo perché vi è stato un enorme aumento del debito pubblico e privato, passato dal 79% del Pil mondiale al 207% del Pil mondiale nel 2020. Dunque ogni rialzo significativo dei tassi di interesse per stroncare l’inflazione rischia di innescare non solo crisi nel debito dei Paesi in via di sviluppo ma anche di destabilizzare il settore finanziario occidentale (vedi Credit Suisse). In secondo luogo, la maggior parte del debito dei Paesi in via di sviluppo a partire dal 2017 è detenuto dalla Cina, e non dai creditori occidentali appartenenti al Club di Parigi. Come si vede nel caso del default in Sri Lanka, il suo Governo non può limitarsi a negoziare con i creditori occidentali una ristrutturazione del debito che non sarebbe accettata dai creditori cinesi (i prestiti di Pechino infatti contengono esplicite “no Paris Club clauses”). In terzo luogo, imporre aggiustamenti strutturali, liberalizzazione e privatizzazioni appare molto poco credibile perché il “sentiment” mondiale è oggi sfavorevole a una riduzione del ruolo dello Stato in economia (il Messico, epicentro degli aggiustamenti strutturali anni 80 ha appena nazionalizzato la filiale locale della multinazionale elettrica Iberdrola) e gli stessi Paesi occidentali sembrano aver imboccato la strada del rilancio delle politiche industriali, di quella che il Presidente francese Macron chiama “autonomia strategica”, dal settore green a quello delle tecnologie. Inoltre i Paesi dei BRICS rappresentano oggi un quarto del Pil e oltre il 40 per cento della popolazione mondiale e l’organizzazione ha ricevuto richieste di adesione da parte di dodici Paesi tra i quali l’Algeria, l’Arabia Saudita e l’Iran. Questi attori si sentono sempre meno tranquilli a detenere asset finanziari occidentali con il rischio – ben evidente nel congelamento di 300 miliardi di euro di asset russi – di vederseli confiscare in caso di conflitti politici. A farne le spese sarà sempre più anche il dollaro, che è passato dal 70% delle riserve in valuta estera delle banche centrali a meno del 59% nel 2021. Si moltiplicano dal 2022 gli accordi per il pagamento di merci in valuta cinese piuttosto che in dollari, come è avvenuto per l’Arabia Saudita, per la Russia (dove i pagamenti in renminbi hanno superato quelli in dollari) e, recentemente, in Brasile. Se l’Arabia Saudita dovesse scegliere di vendere tutto il suo petrolio alla Cina in renmimbi, quasi l’8 per cento del petrolio mondiale non sarebbe più commerciato in biglietti verdi. Da tempo si parla di un nuovo secolo dell’Asia in relazione all’ascesa della Cina. Archiviato il Washington Consensus, non è chiaro se si slitterà progressivamente verso un “Washington-Peking Consensus” o verso un’economia mondiale fatta di aree economiche e monetarie in conflitto fra di loro. Che stia all’Unione europea, l’area più dipendente dal flusso mondiale di risorse naturali e beni manufatti, il compito rilanciare la sua autonomia facendo da ponte tra gli Stati Uniti e i BRICS trainati dalla Cina, in modo da scongiurare che un conflitto economico mondiale si trasformi in una “guerra calda”?
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