il Giornale, 12 aprile 2023
Salvare l’homo sapiens
Sappiamo (crediamo di sapere) che l’universo si sia formato con il Big Bang, un’espressione deviante perché non ci fu nessuno scoppio, come noi lo intendiamo. I fisici sono ormai concordi nel ritenere che, «semplicemente», circa 13 miliardi e 770 milioni di anni fa, quello che chiamiamo universo d’improvviso cominciò a espandersi nell’assenza di tempo e di spazio, un punto microscopico crebbe a una velocità elevatissima, diventando in un secondo una sfera di circa 400 miliardi di chilometri di raggio, piena di particelle, elettroni, fotoni, quark e neutrini che avrebbero formato tutto l’esistente. La Terra esiste da 4,5 miliardi di anni. Dapprima patata bollente, le occorse un miliardo di anni prima di raffreddarsi, e che il vapore formasse nuvole, pioggia, oceani. Poi, altre centinaia di milioni perché nell’acqua iniziasse la vita. Poca cosa, minuscole alghe e batteri che si arrangiavano nel mare, non utili neppure per condire uno spaghetto però capaci, milioni di anni dopo milioni di anni, di trasformarsi in tutte le specie animali e vegetali che popolano il pianeta. Se supponiamo che ogni miliardo di anni o poco più dal Big Bang (1° gennaio) equivalga a un mese, i dinosauri comparvero il giorno di Natale, i primi animali a sangue caldo il 26 dicembre e soltanto la mattina del 31 la scimmia ebbe un mutamento. A mezzanotte meno cinque comparve l’uomo di Neanderthal, e quindici secondi prima di mezzanotte nacque Gesù. Un altro esempio è il metro: i mammiferi appaiono soltanto nell’ultimo centimetro, tutta la storia del Sapiens sta nell’ultimo millimetro e dalla Rivoluzione industriale a noi c’è solo la decimillesima parte di quel millimetro, ovvero dovremmo immaginare di dividerlo per 10.000. La storia del nostro pianeta, tanto più lunga di quella umana, è affascinante, e ce la raccontano due libri usciti quasi contemporaneamente: Breve storia della Terra di Robert M. Hazen (ilSaggiatore, pagg. 430, euro 23) e Breve storia della Terra (con noi dentro) di Juan Luis Arsuaga e Milagros Algaba (La nave di Teseo, pagg. 220 pagine, euro 19), più divulgativo e piacevole alla lettura. Studiare la Terra significa studiarne il cambiamento, dice il primo, e quanti ce ne sono stati. Pianeta senza pace, in perenne evoluzione, muta continuamente, dal nucleo alla crosta. E ai nostri tempi cambia a una velocità sempre maggiore, per l’intervento umano. «Così come le stelle marine sono animali che vivono in fondo al mare», dice il secondo, «noi siamo le creature che vivono in fondo all’aria», l’atmosfera: formiamo una sorta di involucro cosciente, una rete di cervelli intrecciati, secondo una teoria avanzata quasi un secolo fa dallo scienziato e mistico Pierre Teilhard de Chardin. La novità è che da poco più di due secoli noi Sapiens rappresentiamo una parte decisiva del sistema globale, perché la nostra è l’unica specie della storia in cui ogni generazione deve consumare più energia di quella precedente. È stato calcolato che nei 12.000 anni trascorsi fra la nascita dell’agricoltura e il 1900 siano stati consumati soltanto due terzi dell’energia impiegata nell’ultimo secolo. Solo negli ultimi capitoli i due libri si occupano (preoccupano) della situazione attuale e futura, il resto è tutto un godimento. Però, anche senza ricorrere al catastrofismo lagnoso e respingente – di chi vuole «salvare il pianeta», i dati attuali sono oggettivi, «La Terra è bellissima, ma soffre di una malattia chiamata uomo», sintetizzò Nietzsche. Nell’ultimo secolo il pianeta si sta riscaldando molto in fretta, anche grazie alle nostre azioni. Se non ci preoccupiamo di cosa è accaduto un milione di anni fa, o di cosa accadrà fra un milione di anni, basti pensare che ci saranno conseguenze già in questo secolo: siccità in aree già di per sé asciutte, con conseguenti migrazioni inarrestabili, guerre per l’acqua, città costiere e porti inondati. Anche se, in compenso, potranno verificarsi effetti positivi – nuove rotte polari e la conquista di vastissimi terreni agricoli, come la Siberia – sarebbe un cambiamento drammatico. Qualunque cosa accada, in un futuro prossimo o lontano, la Terra sopravviverà, magari popolata solo da microrganismi, come alle origini. Smettiamo dunque di dire che «bisogna salvare» il pianeta, da salvare è la nostra specie, il Sapiens Sapiens. Dovremmo smettere di pensare al pianeta come alla terra dei nostri genitori, e cominciare a pensarla come la terra dei nostri figli. Sarebbe uno dei cambiamenti culturali più importanti degli ultimi millenni.