il Giornale, 12 aprile 2023
Biografia di Henry de Montherlant
n sostanza, Henry de Montherlant è l’ultimo dei grandi moralisti, erede di un vescovado della scrittura ormai sfinito. Per questo non lo pubblicano. C’è da tremare a leggere Montherlant, scrittore con il viso sempre in pieno vento: costringe a riconoscere la tua inadeguatezza, indica i tradimenti, ti mette all’angolo, nella claustrofobia delle tue viltà. Montherlant che credeva nell’esatta coerenza tra corpo e corpus, in una sorta di atletica perfezione formale aveva il viso di un condor. Scava la cadaverica opacità di un’era svergognata; sbugiarda me, te, noi, lettori sottotono, in affanno rispetto all’escatologia del «bel gesto». Per questo non lo pubblicano, Henry de Montherlant. Per questo se lo gingillano, qua e là, come un bambolotto d’oro, i piccoli editori, a tratti di destra. Montherlant atterrisce. D’altronde, soltanto un tempo tiepido definisce superbia la grandezza, crede inutile la cieca generosità, spartita a casaccio. Henry de Montherlant è l’ultimo dei moralisti: discende da Seneca e da Epitteto, ha l’austera eleganza di Marco Aurelio, l’imperatore che nel fango di Vindabona l’antico nome di Vienna, tra massacri e nastri di sangue, sapeva contemplare gli astri e riconoscersi un niente. Discendente da nobile famiglia di origini catalane, misurò la propria aristocrazia sfidando i tori in Occitania e gli uomini in trincea, durante la Grande Guerra. Arruolato come soldato semplice nel 360° Reggimento Fanteria, ne uscì con svariate schegge di granata in corpo le sue stelle dell’Orsa, decorato, pronto a crocifiggere l’ego per esaltare l’io. Le Songe, romanzo a tesi, dai chiaroscuri barocchi, dove l’etica della guerra è contrapposta all’etimo dell’eros, il gusto del sacrificio dal momento che non v’è nulla per cui sacrificarsi svalica nel diktat dell’individuo, sovrano eroe delle proprie fole e follie, Don Chisciotte di patrie perdute, sarà pubblicato nel 1922, dopo svariati rifiuti, da Grasset. Nel 1919, insieme ad alcuni compagni di trincea, Montherlant aveva fondato «L’Ordre», un ordine cavalleresco, esoterico, in sprezzo al presente, ulcerato dalla codardia e dalla bassa scaltrezza. Gli affiliati predicavano «rettitudine, coraggio, orgoglio, saggezza, dunque fedeltà, rispetto per la parola data, disinteresse, dominio di sé, sobrietà». Naturalmente, «l’orgoglio, per chi porta in sé una civiltà raffinata e superiore, è un dovere». Si era pubblicato di tasca sua, nel 1920, La Relève du Matin, raccolta di saggi critici, principio di un processo che lo porterà, molti anni dopo, a una delle grandi opere, Servizio inutile (1935; ora tradotto da Settecolori, 2022). Incassò una lettera beneaugurale di Paul Claudel «Da tempo non mi capitava di leggere un libro con tanto interesse e acuta gioia», che l’autore, con un ghigno, mise da parte. Credere ai complimenti, alle frasi ben vestite, è il principio della fine. In questo contesto, nel 1921, Montherlant appunta Giulio Cesare. Dialogo con un’ombra, ora tradotto da Aragno (a cura di Giovanni e Giuseppe Balducci, pagg. 50, euro 13). Il testo non era predisposto per la pubblicazione: scoperto tra i manoscritti di Montherlant custoditi alla Bibliothèque nationale de France, reso pubblico nel 2013 dalla rivista Anabases, lo si può leggere in rete, insieme al lungo studio di Pierre Duroisin. Il manoscritto che presenta Le Jules César de Henry de Montherlant è introdotto da alcune pagine, «costituite per lo più da appunti di lettura intorno ad autori come Platone, Epitteto, Plutarco, Montesquieu Chateaubriand (sulle Memorie d’oltretomba), Stendhal (sulla Vita di Napoleone) o a storici dell’antichità come Victor Duruy (sulla Histoire des Romains) e Ludwig Friedlaender» (Duroisin). La lista serve a capire il contesto letterario inattuale, ebbro di abissi in cui si muove Montherlant; il Jules César, al di là della spiccia resa teatrale, ne dice l’indole morale. Alcune frasi vanno sottolineate e meditate, testimoniano l’ascesi dell’immorale moralista nei supremi dell’io: «Tutti gli insulti mi lasciano indifferente, mi scivolano addosso»; «Non c’è niente che amo di cui non potrei privarmi per sempre»; «La speranza è la volontà dei deboli Quanto è bello non sperare! Com’è bello non aspettarsi una ricompensa!». Certo, tutto l’impeto, l’agone fino all’agonia, lo stile olimpico pare troppo, sulla lama di una grandeur grottesca, non fosse Montherlant. Piuttosto, questo Giulio Cesare è il canovaccio di lavori futuri (La Guerre civile, per dire; e sarebbe ora di riprendere la bella traduzione che ne fece Piero Buscaroli, edita nel 1976 da Fògola), il preludio ad altre ombre, più sfacciate e sfaccettate. Quella di Sigismondo Pandolfo Malatesta, ad esempio principe e maestro di guerra, sublime perverso, perdente, amato anche da Ezra Pound a cui Montherlant dedicherà uno dei suoi testi teatrali più belli, Malatesta, appunto, di torbida veemenza. Il testo, uscito nel 1946, ha avuto qualche degna trasposizione nei teatri italiani nel 1969, con Arnoldo Foà nei panni del protagonista, e nel 2018, per un paio di anni, per merito di Gianluca Reggiani, studi importanti (il libro curato da Moreno Neri, Henry de Montherlant. L’infinito è dalla parte di Malatesta, Raffaelli, 2004, è imprescindibile) e la nobile traduzione di Camillo Sbarbaro, pubblicata da Bompiani nel 1952, insieme a quelle, altrettanto nobili, di Massimo Bontempelli (che si occupò di altri testi di Montherlant: La regina morta e Il maestro di Santiago). E qui torniamo al punto. Montherlant è culto per pochi, per piccoli editori, che impilano ceri intorno alle frattaglie del grande classico, stilita dello stile. I grandi editori per la canonica indifferenza che li contraddistingue lo ignorano. Oppure trattano Montherlant come un monello, rosolandolo nel disonore. Così, della quadrilogia Les Jeunes Filles, il capolavoro, ciclo di romanzi anti-proustiani, di crudele splendore, possiamo leggere a trovarlo soltanto il primo volume, Le ragazze da marito, edito da Adelphi un millennio fa, nel 2000. E gli altri? Pietà per le donne, Il Demone del bene, Le Lebbrose: dove sono? Scomparsi. Eppure, nel 1958, in edizione di lusso con cofanetto e illustrazioni di Dario Cecchi Mondadori pubblicava il ciclo con il titolo complessivo Ragazze. Si fa fatica a stanarlo perfino in biblioteca. Montherlant era definito scrittore dal «temperamento vivace e battagliero»; la quarta avrebbe inibito i lacchè del moralismo d’oggi (la morale è altra cosa, esige un impero dell’anima): si dice che il protagonista, Pierre Costals, «un dominatore di donne che riesce perfino a farsi odiare dal lettore», «libertino e crudele», «non crede al vincolo dell’amore al quale tutti, o presto o tardi, devono soggiacere; disprezza l’amore, ma non prima d’averlo conosciuto». Nella stessa collana mondadoriana, Il Ponte, uscivano, insieme a Montherlant, Virginia Woolf e James Joyce, William Faulkner e Hermann Hesse, «i più grandi narratori italiani e stranieri». Accademico di Francia dal 1960 senza essersi candidato, rifiutando stole e riti, dichiarandosi afflitto da agorafobia, Henry de Montherlant, ovviamente, si uccise. L’era non gli apparteneva e il suo gesto non è paragonabile a quello di un Catone, di un Petronio, almeno: si uccise, semicieco, senescente, per sigillare la propria opera, nel giorno dell’equinozio di autunno del 1972, «asociale fin nella morte», scrisse Gabriel Matzneff, uno dei suoi discepoli. Ernst Jünger, invece, che ammirava, pur a distanza, morì molti anni dopo, centenario, in forma, per sempre apollineo. Come se si fossero appena salutati, sportivamente, nella Parigi occupata. Erano diversi.