la Repubblica, 12 aprile 2023
Ritratto di Paolo Scaroni
Paolo Scaroni tiene in scacco, quasi solo, 610 nomine in 105 partecipate statali, con 190 miliardi di ricavi.
Non è cosa da tutti: ma lui già il 14 aprile 2014, due ore prima che il governo di Matteo Renzi lo scalzasse dopo nove anni dall’Eni, aspettava l’esito delle nomine al Quirinale, illustrando al presidente Giorgio Napolitano «la situazione degli approvvigionamenti energetici per l’Europa ». Anche stavolta, però, curriculum, relazioni, padronanza dei dossier e supporto del centrodestra di Forza Italia e Lega potrebbero non bastargli per tornare ai vertici di Eni o Enel, i due maggiori produttori e importatori di energia in Italia. La premier Meloni teme infatti che un rientro del dirigente vicentino nel settore riaccenda le critiche già sgorgate in passato, durante e dopo il novennio scaroniano, che avvicinò molto il Cane a sei zampe alla Russia. Notoriamente su input di Silvio Berlusconi, che spesso in quegli anni governava e sempre faceva “l’amico” di Vladimir Putin, in una diplomazia ibrida di ragion di Stato, affari e siparietti che irritava gli Usa e inquietava i servizi di mezzo mondo.
Anche oggi dietro Scaroni ci sono Forza Italia, il partito azienda che lo sponsorizza, e la Lega, che pure lo spinge, se non altro per guastare il filotto di Giorgia Meloni sulle nomine chiave. Fin nel 2005 il Berlusconi premier diceva, traslocando l’ex manager di Techint e Pilkington dalla guida di Enel a quella di Eni: «È un manager che dall’estero ha ricevuto importantissime offerte, rischiavamo di perdere il più prestigioso manager di cui disponiamo». Di recente sembra che i berlusconiani, ma anche Matteo Salvini, abbiano rigiocato Scaroni come la carta dell’asso che spariglia, contro le maniere forti di Meloni. Così sono iniziati i balli per la sua presidenza all’Eni; poi all’Enel; e ora alle Poste.
Ma le prime due ipotesi, al di là di eventuali placet dei rispettivi manager incaricati (Scaroni, che oggi presiede il Milan ed è vicepresidente della banca Rothschild vanta capacità ed esperienze che non ne faranno mai un presidente “di campanello”), si scontrano finora con il veto politico di Meloni. La collocazione filoatlantica, nel conflitto avviato un anno fa, è stata per il suo governo un apriori. E la premier teme che il modo in cui l’Eni di Scaroni gestì alcuni dossier possa esporla a critiche sullo scacchiere geopolitico.
Uno, appena insediato, riguardò la stesura dei nuovi contratti di fornitura con Gazprom, in cui l’Eni lasciava vendere 3 miliardi di metri cubi di gas in Italia a una holding viennese partecipata dal sodale di Berlusconi Bruno Mentasti più ignoti investitori russi e ciprioti. Scaroni firmò il 14 giugno 2005, il predecessore Mincato si era opposto e ci lasciò la poltrona. Ma il cda Eni in autunno riscrisse quei contratti cancellando Mentasti, non però l’allungamento fino al 2035 della scadenza a volumi maggiorati. Così l’Italia accrebbe la dipendenza dai russi, e “ammazzò” nella culla i rigassificatori che il governo Prodi, nel 2006, provava a realizzare in una “cabina di regia”. Nel 2007, poi, ci fu la vendita a Eni ed Enel di due società di Yukos, major dell’oligarca Khodorkovsky, “punito” da Putin con l’esproprio e il carcere. Tempo qualche anno e Gazprom si ricomprò tutto, tra polemiche internazionali. Poi, nel luglio 2009, la difesa di Scaroni nel cda Eni del gasdotto South Stream. Lo voleva Putin per aggirare l’Ucraina, ma un comitato interno Eni aveva sollevato dubbi e rischi di costi eccessivi. Il manager così derubricò il progetto a «studio di fattibilità». Solo il veto dei blugari, dopo la guerra russo- ucraina 2014, farà abortire quel tubo.