La Stampa, 12 aprile 2023
Intervista ad Alexander Zverev
Il fermo immagine a lungo è stato quello: il numero 2 del mondo Alexander Zverev che esce in stampelle, e in lacrime, dal centrale del Roland Garros. Una jella infinita, un passo messo male nella semifinale che poteva cambiargli la vita. Dall’altra parte della rete, Rafa Nadal stava soffrendo. «E io stavo giocando il miglior tennis di sempre», ammette con un sorriso amaro Sascha nella players lounge di Monte-Carlo, la caviglia destra ancora segnata dall’intervento chirurgico con cui gli hanno ricucito i tendini distrutti e salvato la carriera.
Quella finale avrebbe potuto vincerla e cambiare la storia del tennis?
«Non puoi dirlo con certezza, quando dall’altra parte della rete c’è Rafa Nadal: uno che il Roland Garros l’ha vinto quattordici volte. Però sentivo di avere delle chance. Avrei potuto vincere il primo set, e il match comunque era molto equilibrato».
Sei mesi fuori: quanto è stato difficile?
«È stata la parte più dura, perché mi sarebbe bastato vincere un match in un qualsiasi torneo nei tre mesi successivi per diventare numero 1. Immagini il mio stato d’animo: ero il numero 2, fino al giorno prima avevo giocato al massimo, e non potevo competere. Anche Nadal e Djokovic si sono infortunati tante volte, ma non credo abbiano avuto una cosa del genere, la mia caviglia era in pezzi. Loro sicuramente hanno più esperienza nel recuperare, a me serve più tempo per tornare al massimo».
Ora è Nadal infortunato, e lei sta ritrovando la forma migliore. C’è un appuntamento fissato per giugno a Parigi?
«Di sicuro quello è il torneo a cui guardo. Il mio obiettivo principale. Sento che c’è un cerchio che deve chiudersi dopo quello che mi è capitato l’anno scorso».
Stefanos Tsitsipas sostiene che si dovrebbe giocare di più su terra e erba perché sono le superfici più naturali e perché ci si gioca il tennis più bello. È d’accordo?
«Tutte le superfici hanno le loro difficoltà. Oggi si gioca soprattutto sul cemento, a me forse piacerebbe che ci fossero più tornei sulla terra ma non sono io a prendere le decisioni, tocca all’Atp stabilire il calendario».
Non è il primo ostacolo che deve superare: come ha rivelato qualche tempo fa, lei soffre di diabete.
«Sì, mi è stato diagnosticato a tre anni, quindi non ho ricordi della mia vita prima di ammalarmi. Per me è la normalità».
Per aiutare i bambini che ne soffrono nel 2022 ha creato una fondazione.
«Sì, per due motivi. Il primo è che quando ero un ragazzino tanti medici avevano escluso che sarei potuto diventare un atleta. Mi dicevano che nel tennis non avrei avuto chance. E le assicuro che non solo per un bambino, ma per i genitori è un’esperienza molto frustrante. Io però ho sempre creduto di potercela fare e credo che per un ragazzo sia importante avere un esempio, qualcuno che ha vinto la battaglia prima di lui».
Il secondo motivo?
«Che il diabete è una malattia di cui non si parla tanto. In Europa o negli States chi ne soffre può godersi una vita del tutto normale grazie all’insulina e ad altri farmaci. Ma in tante altre parti del mondo, in Africa e in Asia, non è così. Non c’è il nostro sistema sanitario e un bambino che si ammala di diabete rischia di morire in settimane, addirittura in giorni, perché non può fare i test che servono o curarsi con l’insulina. Io vorrei dare a tutti la possibilità di vivere normalmente con il diabete».
Le capita di avere bisogno di prendere l’insulina durante un match?
«Sì, e adesso non ho problema a mostrarlo. Una volta non ero tanto a mio agio, mi "nascondevo" in bagno, mentre oggi lo faccio tranquillamente negli spogliatoi o anche in campo. È molto più semplice, e non c’è niente di cui vergognarsi».
Sinner e Alcaraz sono la rivalità del futuro?
«Sono due giovani che giocano un grande tennis, è quello che vuole il pubblico ed è un bene che ci siano. Ma anch’io a vent’anni ero già un top ten, poi sono arrivati gli altri della mia generazione».
Ora ha 25 anni: dopo l’infortunio i suoi obiettivi sono cambiati?
«No, sono sempre gli stessi: vincere degli Slam e diventare n.1 del mondo». Per dimostrare che il destino siamo noi.