La Stampa, 12 aprile 2023
Fabrizio Bentivoglio sorpreso dalla vecchiaia
Per descriversi Fabrizio Bentivoglio offre una spiegazione semplice: «Basti sapere che sono tifoso dell’Inter. Per esserlo ci vogliono coronarie di ferro, bisogna essere abituati a subire sconfitte amarissime sapendo che, in ogni caso, non si cambierà bandiera, ma si continuerà a soffrire, rischiando di diventare masochisti». Chi lo conosce da sempre, come Gabriele Salvatores, che lo ha diretto nel Ritorno di Casanova (in sala), affidandogli il ruolo ingrato del seduttore in crisi, piegato nel corpo, ma non nel carattere, sa che Bentivoglio ha un gusto particolare per l’understatement, una propensione per il sottotono che gli fa amare personaggi come l’autore tv Carlo Monterossi, protagonista della serie (Prime Video) tratta dai romanzi di Alessandro Robecchi (di cui sta girando la seconda stagione), ma anche raccontare senza impacci episodi su cui altri glisserebbero volentieri: «Sa cosa mi è successo di recente? – dice dopo la masterclass al Bifest – Un suo collega mi ha chiesto "perché lei non è un attore europeo?”. Magari non voleva insultarmi, ma me lo domandava come se fosse colpa mia, come se non fossi sufficientemente bravo».
Cosa le piace di Monterossi?
«Mi riconosco nella definizione che ne fa l’autore, Monterossi è "un vincente involontario innamorato dei perdenti"».
Al centro del Ritorno di Casanova c’è il nodo della vecchiaia, del passare del tempo. Lei come lo vive?
«Casanova, nel turbinio delle sue metamorfosi, non si è accorto di essere invecchiato, non se ne è proprio reso conto. E’ sorpreso. E questa, oltre a renderlo simpatico, è una cosa successa anche a me. Me la sono spiegata con il fatto che, avendoli persi molto presto, non ho visto i miei genitori invecchiare e quindi la vecchiaia non mi è stata insegnata. Non ho previsto che potesse accadere anche a me».
Il contrasto tra generazioni, millennial contro boomer, è uno dei temi clou del nostro tempo. Cosa ne pensa?
«Anche noi usavamo la parola "matusa" per indicare quelli che oggi sono chiamati boomer. La contrapposizione c’è sempre stata, così come l’incomprensione ossia "siete vecchi, quindi non potete capire". Lo vedo ora con i miei figli. Penso che il contrasto possa essere utile se noi siamo in grado di far capire ai ragazzi che abbiamo qualcosa da dire, che possiamo trasmettere loro qualcosa di prezioso. Se, nella velocità supersonica in cui vivono, riescono a trovare un momento per ascoltarci, allora, forse, qualcosa di positivo può venir fuori. Bisogna tenere aperto il dialogo, parlare delle cose vere, beccandosi tutte le etichette, boomer e così via».
C’è un valore intrinseco che distingue i boomer dai millennial?
«Oggi è diventato complicatissimo distinguere l’originale dall’imitazione, dal surrogato. Il surrogato si è talmente perfezionato da sembrare un originale, ma non lo è. Credo che i nostri genitori si siano accorti, a suo tempo, che i Beatles erano i Beatles, mentre noi fatichiamo a considerare la musica di oggi, anzi, a volte, non ci sembra neanche musica».
Il film di Salvatores parla anche di scelte e di occasioni mancate, lui stesso ha dichiarato di non aver avuto figli perché troppo preso dal suo lavoro. Lei ha rimpianti?
«No, non ne ho, è chiaro che questo lavoro puoi farlo solo se lo fai diventare la tua vita, di conseguenza è complicato ostinarsi a voler avere una vita vera, al di fuori. Quelli che ci provano devono fare i conti con il fallimento, e essere genitori vuol dire proprio sbagliare sempre, quello che conta è sbagliare il meno possibile. Poi, certo, la regia è un’assunzione di paternità, i film che fai diventano tuoi figli, e questo non è sbagliato. Non mi ritrovo nella dicotomia tra vita vera che vale di più del cinema e vita falsa che vale di meno, è una stupidaggine, una generalizzazione. Ognuno fa per se. Io ho fatto i figli e Gabriele no, ma questo non vuol dire che io abbia fatto bene e lui no».
Molti suoi colleghi si sono mobilitati perché il vostro lavoro non viene riconosciuto, perché non c’è un contratto che ne stabilisca le regole. E’ d’accordo?
«Mi ritrovo, almeno in parte, in questa rivendicazione, credo che il problema di fondo sia la veicolazione di quello che facciamo al di là delle Alpi, cosa che, in realtà, non è pensata, né organizzata, né prevista, tutto è lasciato al caso. I prodotti di qualità che stiamo facendo si vedono poco, pochi ne conoscono l’esistenza».
Prima il Covid, poi la guerra, cosa la preoccupa di più della fase storica che stiamo attraversando?
«Non so quando capiremo, forse tra una decina d’anni, qual è il segno che il Covid ci ha lasciato. Di sicuro ci stringiamo di meno, ci tocchiamo di meno, ci baciamo meno, e questo, secondo me, è grave. E poi vedo che, mentre si parla tanto di condivisione, in giro cresce, al contrario, una grande indifferenza, come se la gente, forse anche per proteggersi, non volesse sentire, facesse finta di niente».