La Stampa, 12 aprile 2023
Il riscaldamento globale influisce sulle morti. I dati
Di troppo caldo e troppo freddo si può morire (sempre di più se non corriamo ai ripari). C’è un indicatore nel Rapporto demografico dell’Istat – quello sugli effetti del cambiamento climatico sulla mortalità - che meriterebbe un supplemento di attenzione e qualche sparsa riflessione, sfuggendo alla tentazione del «presentismo».
Il punto di partenza è l’affermazione che il numero più elevato dei decessi nel 2022 si è registrato nei mesi più freddi - gennaio e dicembre - e in quelli più caldi, luglio e agosto. In questi quattro mesi cruciali sono stati registrati 265 mila morti, il 40 per cento circa del totale, collegati soprattutto alle condizioni climatiche avverse che hanno penalizzato soprattutto la popolazione più anziana e fragile. Naturalmente era ben noto che in Italia (ma anche in altri Paesi europei) il caldo feroce durante il picco di luglio-agosto aveva falciato vite con speciale «spietatezza» - verrebbe da dire - in particolare in quel gruppo dove è forte il peso specifico delle donne. Ondate di calore e temperature rigide le penalizzano. I vantaggi fisiologici e biologici di cui godono, nella corsa alla sopravvivenza, vengono meno. Lo conferma il divario delle percentuali tra i due generi: degli oltre 606 mila deceduti nel 2022 – ci raccontano nel loro asciutto linguaggio i numeri -, l’85 per cento aveva un’età maggiore o pari a settant’anni, ma per le donne la percentuale si è elevata fino a raggiungere l’89,2 per cento, contro l’80,3 negli uomini. Percentuali che crescono ancora – rispettivamente al 90 e all’80,7% - se ci si riferisce solo ai quattro mesi di caldo e freddo più intensi.
Rappresenta un caso il 2022? La risposta è no. Nel XXI secolo un surplus di mortalità, associato a un numero elevato di decessi nei mesi estivi e invernali, si è registrato negli anni 2003, 2015 e 2017. Lasciando da parte l’estate del 2003, quando le intense ondate di calore provocarono 70 mila morti in eccesso in tutta Europa, si può concludere che negli ultimi otto anni, dal 2015 al 2022, si è verificato già tre volte che i livelli di mortalità siano stati superiori a quanto atteso, con una quota degli incrementi superiore al 35 per cento. Un segnale – apparentemente inequivocabile, per riprendere l’osservazione del rapporto - di quanto i cambiamenti climatici stiano assumendo rilevanza crescente anche sul piano della sopravvivenza, nel contesto di un Paese a forte invecchiamento.
La domanda è: che cosa si fa, anche a livello locale, per aumentare la resilienza dei più fragili agli eventi meteorologici? E per proteggere i gruppi più vulnerabili, esposti - in particolare nelle città - agli effetti del freddo estremo e del caldo, in centri urbani bollenti, con «isole di calore» incontrollate associate al traffico, all’aria condizionata, all’asfalto, al cemento? La questione su come difendersi «dall’influenza delle vicende climatologiche delle varie stagioni» non è propria del nostro tempo. Occupa spazio nel primissimo censimento condotto dopo l’unificazione nazionale, nel 1865. Nella relazione si documentava – con l’ausilio di tabelle - che «in undici compartimenti le massime della mortalità avvengono nei mesi più caldi dell’anno; in tre, Veneto, Umbria, Marche, nei mesi invece più freddi, gennaio e dicembre».
Ma, allora, a incombere non era, naturalmente, il rischio periodico delle ondate di calore causate dal riscaldamento globale provocate dall’uomo, ma l’antico flagello della malaria e la «potenza morbifica» delle «emanazioni miasmatiche». Per proteggere le classi di età e le categorie a rischio ci sono voluti decenni di leggi antimalariche e infine il ddt. Ci vorrà di più, credo, per vedere i risultati di misure locali e globali tese a ridurre i drammatici impatti del cambiamento climatico.