La Stampa, 12 aprile 2023
Un mese di Elly Schlein alla guida del Pd
L’ultima novità l’hanno dovuta digerire venerdì scorso, quando qualcuno li ha avvisati di metter mano rapidamente al cellulare e connettersi con Instagram, che la segretaria stava presentando la sua segreteria. Accidenti, ma che modi: la nuova segreteria, mai discussa con loro, annunciata su Instagram. Per il partito più continuista d’Italia, per i nipoti di Dc e Pci, come veder nominare dei cardinali via TikTok...
È bastato un mese - il primo mese sotto la guida di Elly Schlein - perché negli stati maggiori del Partito democratico (a Roma e in periferia) molti vedessero confermati i propri timori: anzi, più che confermati, ingigantiti. Ma è stato sufficiente lo stesso identico mese perché chi è fuori dagli stati maggiori del Pd, vedesse - al contrario - confermate le proprie speranze: anzi, più che confermate, moltiplicate. In sintesi: trenta giorni è stato il tempo necessario per render chiaro, dentro e fuori, perché gli stati maggiori non volessero la Schlein e perché invece è arrivata.
Non è la prima volta che nel Pd, come si dice, salta il tappo. Esattamente dieci anni fa, con Matteo Renzi, andò in scena lo stesso copione. Lasciamo perdere che i due sono come il giorno e la notte: a far da propellente per entrambi sono stati e furono le sconfitte dei predecessori e l’irrefrenabile insofferenza di elettori e simpatizzanti verso gruppi dirigenti eterni e litigiosi. Renzi promise una vasta rottamazione; la Schlein ha annunciato un più modesto «cambiamento»: se infatti avesse detto quel che aveva davvero in testa, forse perfino qualcuno dei suoi più stagionati supporter avrebbe cambiato campo...
Eppure, nel Pd tutto più o meno tace. Le voci dissonanti sono flebili. Si simulano polemiche ma senza passione. Nessuno alza la voce. Una spiegazione per questa fase (che eviteremo di definire già di quiete prima della tempesta) naturalmente esiste. E non è l’adesione ad una linea che nelle sue pieghe - peraltro - fatica ancora a definirsi. Né è l’apprezzamento verso uno stile di direzione così spiccio. Più semplicemente, la spiegazione è nella forza dei numeri che stanno accompagnando il cammino della nuova segretaria.
Sono numeri di sondaggi, naturalmente: ma quando si esce da una battaglia come quella persa il 25 settembre, anche i sondaggi hanno un loro fascino... C’è un dato, infatti, da non accantonare: dopo il 19 per cento delle elezioni politiche, il Pd ha continuato a flettere per mesi, tanto che l’ultima rilevazione prima dell’avvio del complicato iter congressuale (Swg per La7, 30 gennaio) vedeva il partito fotografato al 14,2 per cento (scavalcato e distanziato dai Cinque stelle).
Ora, un leader politico - a volte - è giudicato come si giudica un allenatore: magari non ti piace come fa giocare la squadra, ma se poi vince lo scudetto... I numeri di Elly Schlein, per ora, sono indiscutibili. L’ultimo sondaggio (10 aprile) attribuisce infatti al Pd il 20,7 dei consensi: sei punti e mezzo in più rispetto al minimo storico di fine gennaio. Non basta. I Cinque stelle, infatti, sono tornati dov’erano (15,1) e il Terzo polo ha ripreso la sua discesa (7,7).
Con numeri così, è difficile porre problemi: anche se Elly Schlein ha preso sul serio il senso della sua investitura e fa la leader. È la vera novità che il Pd deve metabolizzare. La nuova segretaria non è un primus inter pares, messa lì grazie ad un accordo tra capicorrente. È come Salvini, come Berlusconi, come Conte: detta la linea senza passare da riunioni e Direzioni. Decide da sola. Non fa (per ora) accordi con capibastone e correnti. In un mese è diventata l’anti-Meloni, l’alter ego di Giorgia: in campo ci sono loro due. La novità per il Pd è sensazionale: tanto che, negli stati maggiori, molti credono che non continuerà così.
E se invece continuasse così, cambiando quel che il popolo delle primarie le ha chiesto di cambiare? Detrattori silenziosi sostengono che fino alle elezioni europee dell’anno prossimo non rischia niente: e che anzi, poiché quel voto avverrà col sistema proporzionale, lei potrà evitare lo scoglio delle alleanze, contro il quale è naufragato Letta. Elly Schlein ha davanti del tempo, insomma. Anche se non è necessariamente detto che questo, per lei, sia un vantaggio.
Quanto durano le lune di miele? Nemmeno sei mesi e quella di Giorgia Meloni sembra già calante. E come declinare soluzioni - dall’economia al clima, dall’immigrazione al lavoro - finora profilate con slogan e battute? Le insidie sono evidenti, e sulla riva del fiume - infatti - c’è già chi comincia a cercare un po’ di posto. Sono gli esclusi: o quelli che davvero non riescono ad esser d’accordo. Ma il vero rischio - precisamente come accadde a Renzi - sarebbe l’emergere di un vero e diffuso rigetto da parte della base del partito. In quel caso, nulla salverebbe Elly Schlein. Ma certo nulla, ugualmente, garantirebbe la sopravvivenza del Pd.