Domani, 12 aprile 2023
Via Veneto vera e quella di Cinecittà
Questo testo è tratto dal libro Pulp Roma, Il Saggiatore
È accaduto diversi anni fa. Stavano realizzando un servizio su Kurt Cobain e avendo io scritto un romanzo centrato sulla triste vicenda di questo ragazzo suicidatosi a soli ventisette anni, la redazione di quel programma televisivo mi contattò per intervistarmi. Volevano conoscere la mia opinione in merito alle «misteriose» circostanze della morte. Il classico programma a caccia di misteri. La prima reazione fu di rifiutare.
Pensavo non vi fosse alcun lato oscuro da illuminare. In un uggioso giorno di aprile di una decina di anni fa Cobain posizionò la canna di un fucile davanti alla bocca aperta e tirò il grilletto. Nessun mistero. Natura umana a parte, s’intende, che però è spesso insondabile. Finii tuttavia per accettare perché l’idea era di filmare l’intervista nella suite 541 dell’Hotel Excelsior di Roma, la stanza in cui il 3 marzo 1994 Kurt Cobain tentò per la prima volta il suicidio ingoiando settanta pillole di Roipnol dopo aver lasciato un biglietto d’addio con su scritto: «Come Amleto, devo scegliere tra la vita e la morte».
Lo confesso. Ero mosso dalla curiosità un po’ morbosa di vedere quella suite. E mi piaceva anche l’idea che si trattasse di una suite dell’Hotel Excelsior, la suite di un albergo di lusso nel centro di Roma. Giunto sul posto, fui invitato ad accomodarmi su un divano; la troupe doveva prima girare un paio di scene di raccordo. Dissi che non c’era alcun problema, ed era vero. La troupe lavorava nella stanza da letto, mentre io venivo lasciato in santa pace, seduto su un divano del salottino. Era quello che volevo, la ragione per cui avevo accettato. Non so bene cosa mi aspettassi di trovare. Fantasmi o qualcosa che gli somigliasse, immagino.
Rimasi seduto un bel po’ ma non avvertii nulla di particolare. Quand’anche le pareti della suite avessero assorbito un poco dello spirito infelice di Kurt Cobain, o lo spirito si era dissolto col tempo o io non ero in grado di percepirlo. Era inverno, l’impianto di riscaldamento aveva trasformato quel luogo in una fornace. Così mi alzai e andai alla finestra. Fu a questo punto che avvenne l’inaspettato. Mi affaccio e vedo il fantasma di via Veneto. Sono nato a Roma, vivo a Roma, e naturalmente conosco bene via Veneto. Ci sono passato Dio sa quante volte.
Tuttavia la vidi come mai m’era apparsa. Non saprei dirne con certezza il motivo, se per via del caldo che mi aveva intontito o perché la vedevo per la prima volta da una prospettiva diversa, dall’alto. Qualunque fosse il motivo, via Veneto mi apparve in forma di strada fantasma. Qualche passante irrigidito dal freddo camminava sul marciapiede. Qualche auto procedeva lenta sull’asfalto. Non era deserta, eppure mi comunicava un senso di desolazione. Gli edifici primo Novecento, i caffè dai nomi francesi, i platani. Malgrado i passanti e le auto, tutto mi sembrava desolatamente immobile. Mi resi conto che era sempre così che l’avevo vista, triste in quel modo innaturale che è tipico dei luoghi abbandonati.
Compresi inoltre che a comunicarmi quella sensazione era il fantasma di un tempo passato in cui romani e stranieri andavano in via Veneto per osservare da vicino i divi del cinema sfolgorare sotto i flash dei paparazzi. Per ragioni anagrafiche, questo tempo andato in cui via Veneto era una festa all’aperto, il cuore mondano e intellettuale della città, io non l’ho mai visto. Ma so che c’è stato e che ha pure un nome.
LA “VERA” ROMA DI FELLINI
Spesso mi è capitato di leggere che via Veneto non è mai stata quella cosa sfavillante che in genere si immagina. Sì, ci fu un discreto trambusto sul finire degli anni cinquanta, ma si trattò di una breve stagione, durata qualche anno al massimo, mentre al soglio di Pietro c’era ancora il principe Eugenio Pacelli, Pio XII, un papa che le voci circolanti nel dopoguerra volevano risolutamente contrario all’eventualità che Roma avesse una vita notturna. Pertanto, se mi dicessero che non è mai esistita nessuna età dell’oro denominata Dolce Vita, ci crederei.
Del resto, ogni età dell’oro che si rispetti è un tempo immaginario, una mera emanazione di desideri collettivi. La Dolce Vita non fa eccezione. Non a caso La dolce vita è stata prima di tutto il titolo di un film del più sognatore dei registi italiani e poi, soltanto poi, il mito di via Veneto. Sempre per ragioni anagrafiche, ho visto pochissimi film di Fellini al cinema e questi pochi appartengono tutti all’ultimo periodo. Degli altri conservo un ricordo confuso, fatto di passaggi televisivi, video noleggiati, sequenze riprese in qualche documentario o citate in film di altri registi, fotografie viste nei libri o sulle riviste. Non chiedetemi perché, ma sono convinto che per vedere realmente un film sia necessario vederlo al cinema nel momento in cui viene distribuito.
Le stesse visioni nei cineclub possono servire ad alimentare la propria cultura cinematografica, a conoscere film importanti. Ma conoscere un film non significa averlo visto, così come sapere che una certa epoca c’è stata non significa averla vissuta. Vedere un film dei tempi andati non si può, a meno di aver vissuto in quei tempi. «Sono nato, sono venuto a Roma, mi sono sposato e sono entrato a Cinecittà. Non c’è altro»: a questi pochi elementi Federico Fellini ridusse una volta il racconto della propria esistenza. Il senso delle parole è chiaro. A parte il legame con Giulietta Masina, la vita di Fellini secondo Fellini è stata due cose: Roma e Cinecittà. Due cose che a ben guardare sono una, giacché fu proprio a partire da La dolce vita che Fellini cominciò a ricostruire Roma a Cinecittà.
La via Veneto che si vede nel film è una copia perfetta dell’originale, allestita nel Teatro 5 di Cinecittà. Ed è noto che per Fellini la via Veneto di Cinecittà fosse più bella e vera di quella reale, sebbene la copia si sviluppasse in piano e non lungo un leggero pendio come la via Veneto di Roma. Dietro la determinazione di ricostruire luoghi non c’è soltanto l’idea che Fellini aveva del cinema; c’era anche la natura della sua romanità. In un certo senso, Fellini non è venuto a Roma. Ci è tornato. Ida Barbiani, sua madre, era romana.
Lasciò la città per andare a Rimini dopo essersi sposata con Urbano Fellini, un matrimonio che compromise i rapporti della donna con la famiglia d’origine. Il brusco distacco dalle radici dovette lasciare segni profondi in lei, se è vero, come pare, che fosse solita rifugiarsi in lunghi silenzi e nella preghiera. È non poco probabile che Federico Fellini abbia ereditato qualcosa delle nostalgie che affliggevano la madre, nel qual caso la sua venuta a Roma assumerebbe i contorni di un ritorno di tipo speciale, il ritorno a un luogo dove in effetti non si è mai stati ma al quale comunque si sente di appartenere.
Anche la ben nota riluttanza di Fellini a viaggiare, a spostarsi da Roma, può essere letta come la paura o il rifiuto, chiamatelo come volete, di rivivere il trauma del distacco vissuto dalla madre. Non farò sfoggio di particolare acume se mi soffermo sul fatto che in tutte le forme di nostalgia il tempo riveste un ruolo fondamentale. Dirò perciò un’altra banalità, e cioè che è proprio nella nostalgia per i paradisi perduti e le età dell’oro, per i luoghi e le epoche nei quali non si è vissuto, che il passato fa sentire tutto il suo peso.
In questa specifica forma di nostalgia, che potremmo definire «nostalgia indiretta», il tempo soverchia lo spazio, e la dimensione del sogno non può che intasare quella del ricordo. Era perciò inevitabile che Fellini preferisse e considerasse più vera la Roma ricostruita a Cinecittà. Difatti era proprio così: la sua «vera» Roma non era quella reale. Esiste una grande letteratura sul disinteresse di Fellini per gli aspetti meramente tecnici.
Si dice che poco gli importava di conoscere il funzionamento di una macchina da presa e che fino all’età di trent’anni non abbia mai messo l’occhio dietro l’obiettivo di una macchina fotografica. Questo disinteresse, unitamente alle esperienze giovanili del regista come illustratore e caricaturista, ha alimentato l’idea che l’approccio di Fellini al cinema fosse di tipo pittorico. Ciò è indubbiamente vero, ma è necessario precisare cosa debba intendersi con «pittorico». Non tutta la pittura è uguale, infatti. Semplificando molto, esistono artisti che usano la pittura come un mezzo per rappresentare il reale e altri per cui è invece un fine, una realtà in sé.
A quest’ultima specie di artisti non interessa tanto dipingere il mondo quanto crearne uno alternativo fatto di pittura, un vero mondo dipinto che può anche somigliare al mondo reale ma che segue regole interne, un mondo a cui è consentito fregarsene delle leggi fisiche. A quest’ultima specie di pittori appartiene anche il Fellini regista, incline alle inquadrature dechirichiane. Anch’egli romano di adozione, de Chirico costruiva piazze italiane in cui gli edifici sembrano stare in piedi per miracolo. I suoi quadri più che ricreare un luogo tendono a definire l’atmosfera trasognata di un particolare momento, quella malinconica dei pomeriggi autunnali quando le ombre sono particolarmente lunghe e spettrali.
E proprio come de Chirico, Fellini guardava ai luoghi da un’angolazione temporale. Uno dei suoi momenti preferiti era l’alba, vista non come inizio di un nuovo giorno ma come termine di una notte passata a girovagare e gozzovigliare. È così che si chiude La dolce vita, con un manipolo di festaioli che dopo un’orgia in una villa di Fregene si ritrova in una spiaggia dove assiste alla pesca miracolosa di un pesce morto. La sensazione che ho provato osservando via Veneto dalla finestra della suite dell’Hotel Excelsior è assimilabile alle atmosfere dechirichiane e felliniane, ai meriggi autunnali di uno e alle albe raminghe dell’altro, a quello strano senso di perdita e serena precarietà che è tipico di entrambi. Il fatto è che quella strada vista dall’alto non era semplicemente via Veneto, ma una strada specchiante, un nastro d’asfalto che rifletteva il mio rapporto conflittuale con la città in cui sono nato. In altre parole, ho visto la mia Roma, la Roma della mia Dolce Vita, della mia età dell’oro. La Roma dove non ho mai vissuto, anche se per certo periodo, in gioventù, ho condotto un’esistenza vagamente felliniania, facendo un poco di tutto e molto di niente, come il Marcello della Dolce vita.
Frequentavo l’Accademia di Belle Arti, anelavo a diventare un pittore imitando De Chirico, scribacchiavo qualcosa senza alcuna ambizione letteraria perché quella dello scrittore era per me la strada più triste che un individuo potesse intraprendere. Ma più di ogni altra cosa girovagavo. Uscivo la sera convinto che avrei trovato la risposta al senso della vita esplorando la notte, e puntualmente arrivavo all’alba con la testa annebbiata, facendo discorsi insensati con gli amici, cercando un altro posto dove andare che non fosse la tristezza opprimente delle mura domestiche. Sto parlando dei primissimi anni anni ottanta, un periodo confuso che ha rivelato la sua natura quando è uscito Blade Runner.
Il futuro rappresentato come un rudere, Babele come unica forma di città possibile, le macchine che provano sentimenti più intensi delle persone. Quel film fu una rivelazione per molti. Per quanto mi riguarda fu il primo film che abbia mai visto nel senso di cui dicevo prima, in un certo senso è stato la mia Dolce vita. A questo proposito, val la pena di ricordare il rapporto indiretto che Blade Runner intrattiene con una certa maniera di intendere Roma. Non è stato infatti mai dovutamente sottolineato il debito che questo film ha con Ranxerox, il fumetto che apparve sulle pagine di varie riviste underground romane a cavallo tra gli anni settanta e ottanta.
RANXEROXNell’intenzione del suo creatore, un giovanotto della borgata Talenti di nome Stefano Tamburini, Ranxerox dove rappresentare un «coatto» romano in versione cibernetica.
Era una specie di Frankenstein punk assemblato con pezzi di scarto di una macchina fotocopiatrice da uno «studelinquente» di una Roma del futuro. O meglio di una Roma che allora era il futuro, essendo il fumetto ambientato nel 1986, data nella quale non è difficile leggere un grottesco ribaltamento del mitico 1968. Ci sarebbero molte cose da dire sulla creatura di Tamburini e sul modo in cui Tanino Liberatore lo disegnò, ma sono cose che mi porterebbero troppo lontano rispetto a quel che qui mi preme maggiormente, ossia quel certo modo di rappresentare Roma che è poi il modo in cui viene rappresentata Los Angeles in Blade Runner. Da Caravaggio a Fellini e Pasolini, tutti coloro che sono giunti in questa millenaria città cogliendone l’essenza più vera hanno finito per ritrarla come un luogo di sozzura e indolenza morale, un bordello a cielo aperto.
Anche la Roma di Ranxerox è così, una metropoli decadente e cialtrona dove la gente si droga e si scanna come niente fosse e indossa abiti sintetici che riciclano le mode di qualunque epoca. In questo «futuro» 1986 i monumenti e gli edifici sono più o meno gli stessi della Roma reale. La sola differenza è che cadono a pezzi, perché nessuno li reputa più degni di essere salvaguardati oppure, per la stessa ragione, vengono ristrutturati come il Colosseo, puntellato con immonde colate di cemento armato e trasformato in un albergo. In fondo, la Roma di Ranxerox non è molto lontana da quella di Federico Fellini. Si racconta che Tamburini e Liberatore abbiano litigato per la nuova veste da dare al Colosseo.
Tamburini voleva che fosse interamente ricostruito in plexiglas rosa. Liberatore si dichiarò contrario perché, a suo avviso, rendere l’effetto del plexiglas in una tavola disegnata era troppo difficile se non impossibile. Così si optò per il cemento armato. Fu un vero peccato. Il Colosseo in plexiglas rosa ha rappresentato una grossa perdita per l’immaginario romano. Provate a pensare in grande. Immaginate per un istante Federico Fellini che fa ricostruire a Cinecittà un Colosseo in plexiglas rosa.
Lo trovate assurdo? Be’, io no. E se non è accaduto, se Fellini non ha trasformato in film la Roma di Ranxerox, è soltanto per una sfortunata coincidenza, per uno scarto generazionale di troppo. Ciò che avrebbe potuto essere Roma è diventata invece la Los Angeles di Blade Runner. Ed è un’ingiustizia, perché sebbene l’esegesi sia infondata, è Roma la prostituta seduta a cavallo del mostro con sette teste, è Roma la grande meretrice, la grande Babilonia. Dobbiamo così contentarci dei frammenti di bordello che Fellini ricostruì a Cinecittà.
Quei frammenti hanno rappresentato, per me, la possibilità di una riconciliazione, seppure parziale, con una Storia andata. Hanno fatto sì che potessimo guardare con meno sensi di colpa ai miei tentativi di fuga dal reale, agli sconfinamenti nel visionario, alla voglia di appartenere a un tempo che non è il nostro, alla predilezione per i paradisi perduti e le età dell’oro. Forse non ci hanno reso la mia vita dolce, ma ci hanno comunque tolto un poco di amarezza. Diciamo che l’hanno resa agrodolce. Che non è poco. Non è poco per niente.