la Repubblica, 11 aprile 2023
Le parole del fascismo
I testi di questo volume presentano in maniera chiara e scientificamente ineccepibile gli avvenimenti collocabili nel periodo della dittatura fascista, a essa legati per ragioni di ordine cronologico e per effetto di precise scelte del regime: si tratta di fatti che implicano ricadute linguistiche, cioè che toccano la retorica, l’oratoria, la propaganda, la comunicazione sociale e le sue applicazioni specifiche nella didattica scolastica, nella pubblica amministrazione, nelle associazioni giovanili, nell’organizzazione dello sport, nel cinema, nella radio, nei giornali, nella toponomastica e persino nell’onomastica (quanti italiani furono battezzati “Benito” durante il Ventennio? Certo molti, e si sono portati dietro quel nome per tutta la vita, anche dopo la caduta del fascismo).Chi leggerà queste pagine troverà per esempio indicazioni sulla polemica contro l’uso dei dialetti e reperirà notizie interessanti sulla battaglia condotta dal fascismo contro le parole forestiere impiegate nella pubblicità e nel commercio, sui provvedimenti ostili e vessatori ai danni delle minoranze linguistiche. Questi ultimi, tra i tanti, sono due evidenti ambiti in cui si esercitò una politica linguistica orientata verso l’“autarchia”, parola tecnica di etimo greco, inizialmente limitata all’impiego specialistico da parte di filosofi e giuristi, ma dal 1936 diventata emblematica appunto come marchio della politica fascista. L’autarchia linguistica corrisponde perfettamente all’economia autarchica e consiste nel tentativo di isolare la lingua nazionale per renderla impermeabile o almeno refrattaria agli influssi esterni.Il nesso tra autarchia economica e autarchia linguistica fu individuato anche allora. Nel maggio del 1940 Franco Natali, nome di battaglia “Index”, inaugurava le Edizioni di Bergamo fascista, organo di punta della Federazione dei Fasci di combattimento bergamaschi, con un volumetto intitolato Come si dice in italiano? Vocabolarietto autarchico. Nella prefazione del libretto si legge quanto segue: «L’autarchia, più che come soluzione di problemi interessanti l’industria e il commercio, dev’essere da noi considerata come una ben delineata forma mentale, come un atteggiamento di rivolta contro passati servilismi, filìe, acquiescenze nei rapporti con l’estero». Il passo citato può suggerire la portata delle ambizioni ideologiche di chi si batteva in quegli anni e in quel contesto (l’Italia era ormai quasi in guerra) per la sostituzione di termini stranieri. Quanto allo stile, non stupisca il grecismo “filìe”, utilizzato da Natali per indicare con disprezzo «discutibili ed equivoche amicizie»: è un ipercultismo di cui si rintracciano diverse occorrenze in quegli anni nella stampa fascista, anche in riferimento ai rapporti (che ovviamente erano scoraggiati) tra italiani ed ebrei, ormai nel tragico contesto delle leggi razziali.Il fascismo combatté l’uso dei dialetti, oltre che le parole straniere. Nel caso della polemica contro i dialetti, però, le cose sono un po’ diverse, perché non si trattava più di autarchia, cioè del rifiuto di qualche cosa di esterno, delle lingue estere viste come nemiche e invasive, portatrici di costumi o di propaganda poco italiana, o addirittura ostili alla patria e corruttrici dei costumi. I dialetti rappresentavano una varietà linguistica interna all’Italia medesima, cioè incarnavano una vitalità popolare che avrebbe potuto essere accettata, e che infatti non dispiacque ad alcuni intellettuali vicini al fascismo, per esempio nell’ottica di Strapaese, un movimento culturale che auspicava una rivalutazione delle risorse della provincia italiana. Tuttavia, in questo caso, l’ostacolo stava in un’altra chimera molto cara al fascismo più ortodosso: il dialetto popolare, sebbene innegabilmente “nazionale”, disturbava la retorica magniloquente di un regime che spesso si ispirava ai grandi fasti della storia, riprendendo il mito di Roma antica, e dunque aspirava a un ideale di per sé imperiale della lingua che, per farsi degna dei radiosi destini, necessitava di elevatezza. Roma, più che Firenze, anche per la lingua italiana: ciò in parte spiega come mai fu tolto alla Crusca, nel 1923, il compito di redigere il vocabolario della lingua italiana, operazione che aveva svolto per secoli. (...)Radiosi destini della patria e anche della sua lingua: effettivamente, negli anni del fascismo, l’italiano fu esportato all’estero con un certo vigore, ed ebbe più prestigio internazionale di quanto non ne abbia oggi, nell’Italia democratica. Si badi, però: l’Impero fascista coloniale e bellicoso, se lo rapportiamo all’intera storia italiana, considerata nel suo sviluppo complessivo, non fu il periodo di maggior fulgore della nostra lingua. La fase di apogeo resta sicuramente quella rinascimentale, i cui effetti di ricaduta internazionale durarono, seppure in maniera via via decrescente, fino al Settecento.Il volumeLe parole del fascismo, nato in collaborazione con l’Accademia della Crusca, è scritto da due accademici. Il volume è in vendita a 9,90 euro