Corriere della Sera, 8 aprile 2023
Intervista a Riccardo Chailly - sulla "Lucia di Lammermoor" di Gaetano Donizetti in scena al Teatro alla Scala
Perché è stata prassi tagliare sempre la «Lucia»?
«Non esisteva ancora l’edizione critica che utilizziamo e il ruolo di Raimondo, che rappresenta la saggezza e fa da spartiacque nella tragedia, per decenni è stato decimato: mancava un’intera scena tra lui e Lucia. La nostra edizione ripristina l’opera nella sua integrità e dopo la seconda scena del II atto Raimondo diventa fondamentale per muovere il dramma. Si ripristina, così, la drammaturgia secondo l’originaria impostazione di Gaetano Donizetti e Salvatore Cammarano, che attribuisce maggior peso al baritono e al basso».
Torna l’impiego dell’armonica a vetro al posto del flauto nella scena della pazzia e in tutta l’opera i vari strumenti cercano di ritrarre gli stati d’animo.
«La follia è qualcosa di transumano e la glass harmonica riesce a descriverla per l’armonia timbrica che crea: il timbro di ogni nota dipende dal contenuto d’acqua nel bicchiere, che varia l’altezza del tono. Ma per una diatriba tra esecutore e Teatro San Carlo alla prima si utilizzò il flauto. L’apertura del preludio è una marcia funebre con cassa e timpano, molto scura, a cui segue un corale di corni in tessitura grave che accentua il senso cinereo. Ritroveremo questi stessi corni nella romanza del tenore che chiudere l’opera: in questo modo si tiene tutta la tensione drammatica. Magnificamente espressivo è anche il suono dell’arpa, chiamato a creare una atmosfera lunare. Intensa la campana a morte nell’ultima scena del III atto e quando Edgardo si è già ferito (“Tu che a Dio spiegasti l’ali”) c’è un violoncello solo che crea un timbro lacerante».
«Lucia» fu rappresentata alla Scala, nell’Ottocento, ben 106 volte. Cosa significa proporre oggi questo dramma di Walter Scott?
«Parla del significato dell’amore, purezza, bellezza e ingenuità per un amore irresistibile che si vuole sostituire con un matrimonio reale non richiesto. Non è solo romanticismo, ma anche un segnale d’allarme per gli amori che deragliano dalla ragione».
Cosa mette in evidenza la regia di Yannis Kokkos?
«È uno spettacolo di grande eleganza, con rigore scenico e pulizia. Enfatizza la presenza del coro, che è importante, e degli insiemi: io prediligo il concertato di chiusura del II atto (“chi mi frena in tal momento”) perché c’è un finale catartico, rapido (“il furor che m’accende”)»
L’opera ha sempre avuto grandi interpreti, come Toti Dal Monte, Aureliano Pertile, Maria Callas, Anna Moffo. Li ha anche oggi con Lisette Oropesa e Juan Diego Flórez: come si sono integrati?
«Oropesa ha vocalità ideale nel registro sovracuto, temperamento e personalità. Con lei ho subito pensato a Florez: funzionano benissimo e si affiancano con stile. Si aggiunge Enrico, che è Boris Pinkhasovich baritono molto felice anche in acuto e Raimondo, che è Pertusi, dunque virtuosi del canto italiano».
Qual è il suo rapporto con Donizetti?
«Per me è un compositore che sperimenta testi difficili, addirittura impopolari, che chiede un linguaggio particolare al racconto, ha coraggio. Le trame sono complicate e rappresenta l’Italia con la sua grandezza».
Allora possiamo dire che questa «Lucia» è anche l’omaggio della Scala a Bergamo capitale della Cultura?
«Certo, quest’anno celebrano Bergamo con Donizetti e il prossimo anno abbiamo il centenario Pucciniano».
Si parla di Carlo Fuortes come possibile successore del soprintendente Meyer…
«Qualsiasi logica di pensiero mi sfugge. Le persone coinvolte sono entrambe valide, ma ho molta fiducia nel Cda».