Corriere della Sera, 11 aprile 2023
Ritratto di De Chirico
Henri Matisse amava ripetere: «Statemi a sentire, volete fare pittura? Allora cominciate con il farvi tagliare la lingua, perché d’ora in poi dovete esprimervi unicamente con i pennelli». Potrebbe essere letto come un’implicita risposta a questo provocatorio invito l’ opus magnum, curato da Andrea Cortellessa, Sabina D’Angelosante e Paolo Picozza, in cui sono radunati gli scritti letterari, teorici e storico-artistici di Giorgio de Chirico ( Scritti. 1910-1978, La nave di Teseo). Un volume definitivo, che amplia il prezioso lavoro antologico condotto da Maurizio Fagiolo dell’Arco nel 1985 ( Il meccanismo del pensiero, Einaudi).
Accompagnata da un ricco corpus di apparati bibliografici, questa vasta raccolta segue un andamento rigorosamente cronologico: dai manoscritti francesi ai contributi critici redatti tra il 1918 e il 1928, dagli scritti sulle tecniche pittoriche alle poesie e agli esercizi letterari (Ebdomero, Il signor Dudron, Le ballet), dai momenti memorialistici (Ricordi di Roma e Memorie della mia vita) ai trattati (Commedia dell’arte moderna), dalle interviste agli articoli d’impronta antimodernista, che anticipano le posizioni conservatrici di Jean Clair e di Robert Hughes.
Non è facile orientarsi in questo labirintico libro, ricco di sollecitazioni e di intuizioni. De Chirico sembra divagare, per consegnarsi a una felice perdita del centro. Invece, non fa che ritornare sempre sugli stessi nodi, sugli stessi problemi. Ne emerge un mobile archivio di ossessioni ordinato, per riprendere un’immagine cara a Jean Cocteau, da un criminale che, dopo aver rassicurato la sua vittima, la colpisce alle spalle.
Ecco, allora, il de Chirico che rassicura. E afferma con forza il senso della continuità. Distante dal mito dell’eterno cominciamento perseguito dagli animatori delle avanguardie primonovecentesche, impegnati a mettersi «disciplinatamente e passivamente agli ordini di un futuro già decretato» (secondo Enzensberger), egli vuole difendere un’ostinata indipendenza da gruppi e da tendenze. Profonda, in lui, l’insofferenza verso il «partito modernista», una sorta di prefigurazione del sistema dell’arte contemporanea. Perciò, in polemica con il nichilismo dei futuristi, indossando gli abiti dello storico dell’arte, il Pictor Optimus (come si definiva de Chirico) attribuisce una centralità assoluta ai musei. Interroga i maestri della pittura, retroterra necessario per ogni fantasticheria. E studia le tecniche: la scelta dei pennelli, la preparazione delle tele, l’imprimitura, la pittura a olio, la tempera grassa. Con una precisa convinzione: saper dipingere non vuol dire distribuire colori, ma mescolare sostanze: «Una bella pittura non è mai del colore secco, ma della bella materia colorata».
Queste tesi sono ribadite in testi dove de Chirico sembra comportarsi come quegli artisti-critici che, per richiamarci alle parole Giovanni Papini, «conoscono meglio l’arte perché la fanno e sono, poeti loro stessi, più inventivi e generosi». In linea con la lezione della trattatistica medioevale (Cennino Cennini), egli tende a parlare da homo faber, che frequenta dall’interno i meccanismi della creazione. Senza smarrirsi in discussioni astratte, si esprime da inquieto materialista: indica le procedure seguite; descrive gli strumenti adoperati; si pronuncia sull’«immanenza» del disegno, del colore, delle pennellate, degli impasti. L’arte? Innanzitutto, è un lavoro fabbrile. Un ingranaggio con nessi e giunture che non devono apparire in evidenza.
Poi, c’è il de Chirico filosofo, che si diverte a colpirci alle spalle. Sulle orme di pensatori come Schopenhauer, Nietzsche e Weininger, attingendo a eterogenei rinvii eruditi, egli elabora scritture rapsodiche ed erratiche, che suggeriscono sentieri laterali per lambire i misteri del fare. Guide capricciose ed elusive che, spesso, conducono verso le vette dell’investigazione teoretica. Ne affiora un’idea originale di metafisica immanente, intesa come dialogo insicuro tra l’effimero e l’eterno. Metafisica, secondo de Chirico, significa guardare il mondo in maniera differente, al di fuori della cronaca. Rivelare i lati notturni e spettrali del vero. Cogliere la dimensione ontologica nascosta dietro il visibile. Presentare la realtà spaesandola.
Metafisica significa rivelare i lati notturni e spettrali del vero, cogliere la dimensione nascosta, presentare la realtà spaesandola
Esito di queste premesse di poetica, enunciate con consapevolezza e acume, è un sillabario pittorico fatto di poche figure: piazze, monumenti, ciminiere, torri, archi, portici, fontane, statue, insieme con manichini e frammenti di quotidianità (biscotti, banane, carciofi, guanti). Con la maestria di un montatore cinematografico, non senza un certo gusto per la farsa e per lo sberleffo, de Chirico ha accostato questi elementi in collage sempre diversi, governati da prospettive pre-rinascimentali, di tipo non simbolico ma psicologico, e segnati da ombre incongrue, che hanno il valore di emanazioni dell’invisibile.
Sono nate così quelle «città del pensiero» cui Italo Calvino, nel 1985, ha dedicato uno struggente racconto. Scenari urbani attoniti e addormentati, collocati fuori del tempo storico, quasi usciti da un sortilegio: sembrano annunciare eventi minacciosi. In attesa di qualcosa che non si sa e fa trattenere il respiro, queste atmosfere magiche e sospese sono abitate da manichini, da poeti e da vaticinatori intrappolati in geometrie rigide. Accanto, busti senza testa e arti frantumati. Sullo sfondo, architetture classiche e rinascimentali, quinte di un teatro dell’assurdo. Le medesime dissonanze si ritrovano negli interni metafisici: assemblage di squadre, righelli, carte geografiche, bozzetti, pezzi di pane poggiati su piccole zampe.
Composto in gioventù, questo immaginario plastico è stato ininterrottamente ripreso e riarticolato da de Chirico, incline, negli anni, a emanciparsi da ogni anacronismo, per concentrarsi sulla qualità della forma più che sui contenuti delle opere, un po’ come quegli artisti del Seicento portati a rendere deboli i modelli dei maestri del Rinascimento.
Anche nei quadri – come negli scritti – entra in azione il temperamento da criminale di de Chirico. Il quale, disinvolto nell’infrangere il «rosario continuo dei ricordi», ritrae un universo fantastico e onirico, ma esatto, privo di fantasmi, in cui sembra che gli oggetti non si siano dati appuntamento. Con amore per l’assurdo e le mascherate, concepisce il surreale come proiezione ortogonale del visibile. Si propone di rendere insensato ciò che è ordinario. Analogamente al Kafka de La metamorfosi, fa convivere il massimo della chiarezza con il massimo dell’oscurità. Nei suoi arditi ready made, isola alcuni elementi (architetture, figure, statue) dai loro consueti contesti, che poi disloca altrove, caricandoli di simboli ulteriori. Nelle sue drammaturgie, ogni dato è trasformato in un reperto archeologico, avvolto dentro un silenzio minaccioso. Si avverte un presentimento di cose fatali. Si respira quella medesima «tragedia della serenità» che incontriamo in romanzi visionari come Ebdomero e Il signor Dudron.
Dunque, non solo Pictor Optimus. De Chirico anche storico dell’arte. Trattatista. Filosofo. Scrittore. Poeta. Volti diversi di uno straordinario marziano del XX secolo che, nelle sue scorribande, in fondo, ha provato a rispondere a una sola – e decisiva – domanda. Cosa si cela dietro il mondo? Il senza senso. L’enigma. Un «inspiegabile stato X».