Corriere della Sera, 11 aprile 2023
Intervista a Stefania Auci
Stefania Auci: «I Florio? Bocciati da due grandi editori. Un altro libro rifiutato perché parlava di gay»
Partita da Trapani e conclusa Giurisprudenza a Palermo, è volata ancora trentenne al tribunale di Firenze come cancelliere per poi tornare in Sicilia dove preferisce insegnare e ama scrivere. Pronta, dopo il clamoroso exploit nelle classifiche dei suoi libri, a moltiplicare il successo con una fiction Disney+ anche oltreoceano. Sempre con i «Leoni», con il ruggito dei Florio. Sullo sprint di un milione di copie vendute in 35 Paesi. Un fenomeno incoronato dalla fiction in lavorazione per settembre sulla saga raccontata da una scrittrice da primato: Stefania Auci, 48 anni, due figli adolescenti, docente di sostegno, gettonatissima signora del romanzo, Premio Bancarella la scorsa estate.
Che fa una scrittrice da primato travolta da fulmineo trionfo? Non prepara più la colazione ai suoi due figli la mattina? Avrà tre tate? Una Kelly da diecimila euro per borsa...
«Ma de ché? Ma quando? Io normale, concreta, piedi a terra. Ho appena cambiato le lenzuola nella stanza dei ragazzi, adesso sistemo la biancheria nei cassetti. Ma non può stupire. Vivo il quotidiano di una persona normale».
A che ora comincia la giornata?
«Sveglia alle cinque del mattino. Prima delle 6 seduta per scrivere. Poco più di un’ora. Fino alle 7.15. Poi i ragazzi, la corsa per la scuola...».
Di pomeriggio di nuovo a scrivere?
«Sempre a cercare il momento buono. Ma la scrittura mattutina è la più produttiva. Non ci sono stimoli, distrazioni».
Davvero un passato di cancelliere precede quello di narratrice?
«Sono l’esempio vivente di come le curve dell’esistenza possano portare a esiti insperati. Feci il concorso anche se frattanto partecipavo ai corsi per insegnare. Per fortuna. Accadde tutto in pochi anni. Compresa la nascita dei miei due figli che mi sono dovuta portare a Firenze».
Con suo marito?
«No, lui aveva trovato lavoro a Palermo. Un ufficio statale. Risultò impossibile un trasferimento».
E lei da sola...
«Non proprio. Per due anni mamma, sorelle e zie, tutte a turno in Toscana con me per badare ai piccoli. Che forza la famiglia».
Firenze solo una tappa?
«Poteva diventare la mia città. Chiesi aiuto alla dirigente e il “ricongiungimento” al ministero. Ma né Roma, né la stessa dirigente vollero tutelare la posizione di una madre lavoratrice. Dovetti dimettermi. Mi aggrappai alla scuola, la fortuna di quei corsi. Le prime supplenze nel 2014».
Da quando aveva cominciato a scrivere?
«Dalle elementari. Racconti, pensieri. Con lunghe pause dettate da studio, università. Poi, nel 2009 due “romanzi da edicola”, allora pubblicati da Harlequin».
Il primo?
«Fiori di Scozia. Ambientato nel 1745, alla vigilia della rivolta giacobina guidata da Carlo Stuart. Storia e amore insieme».
Quasi un rodaggio per approdare alla saga dei Florio pubblicata dalla Editrice Nord. Aveva chiesto ad altri?
«Eccome. Scrivevo e mandavo manoscritti. Ma per risposta solo dei no e tanti silenzi. Anche da parte di due grossi editori, niente nomi».
Qualcuno si morderà le mani.
«Non io. I silenzi servono. Le batoste, nel momento in cui è arrivato il successo, mi hanno permesso di guardare con un certo distacco a quanto stava accadendo. Con la consapevolezza che nulla di questo dura per sempre».
Effetti personali del successo?
«Non sono solo applausi».
Con il successo scatta anche l’invidia?
«Sentimento umano molto diffuso. Sinceramente, non piacevole da subire. Come è successo a me. Adesso molto meno di prima, ma capita».
Esagerava Tomasi di Lampedusa nel dire che, dopo gattopardi e leoni, arrivano sciacalli e pecore?
«Profetico. Visione fin troppo realistica. Rappresentata con amarezza, rabbia, impotenza».
A che cosa si riferisce?
«A come gli esseri umani percepiscono sé stessi. Alta considerazione di sé. Soprattutto in Sicilia, vedo in molti una incapacità a rendersi conto delle proprie incapacità».
La fiction sui suoi libri, girata da Paolo Genovese, ha per protagoniste Miriam Leone, Donatella Finocchiaro, altre siciliane, compresa Ester Pantano, la Suleima di Màkari che canterà la colonna sonora.
«Ah, le donne...».
Saranno loro a salvarci?
«Da diecimila anni sono messe da parte, ma il loro sguardo può essere salvifico. Io ne sono convinta, non per femminismo, ma perché molto più rapide degli uomini nell’accettare cambiamenti».
Non starà pensando a Meloni e a Schlein?
«Auguri ad entrambe. Perché nemmeno l’Italia sta tanto bene».
Ripetiamo il ritornello di Sicilia metafora?
«Resta un laboratorio politico. Ci sono regioni del Nord che sono luoghi di sperimentazione economica. In Sicilia si sperimenta il gioco del potere, su ogni piano, incrocio di evoluzione e involuzione culturale».
Lei, insegnante di sostegno, nel 2017 scrisse «La cattiva scuola»...
«Con la grande Francesca Maccani, adesso in libreria con Le donne dell’Acquasanta. Un controcanto alla legge Renzi sulla buona scuola. Se ne occupano sempre tutti, malamente».
Che fare?
«Non è più considerata un supporto nella formazione, ma un parcheggio. Viene meno la delega educativa. Manca un concorso tra scuola e genitori».
È vero che una casa editrice le bocciò un libro perché ruotava su una storia d’amore omosessuale?
«Dieci anni fa. Tempi non maturi. A volte non ci rendiamo conto di quanto la sensibilità sociale sia avanti. Io lo vedo a scuola, con i ragazzi. Affrontano tutto con naturalezza. Se c’è un trans fra loro non se ne preoccupano, non discriminano».
La mafia. Il primo ricordo di un orrore mafioso?
«Abitavamo a Trapani, dalle parti di Pizzolungo. Avevo dieci anni. Un boato sordo. Pensammo a una bombola di gas. Invece era esplosa un’autobomba per colpire il giudice Palermo, uccidendo una mamma e i suoi due bambini. Tre anni dopo, Mauro Rostagno. Un dolore infinito».