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 2023  aprile 09 Domenica calendario

Biografia di Antonio Porchia

Di alcuni scrittori rischia di non rimanere nulla, neppure il nome. Non appartengono a scuole riconosciute né a gruppi consolidati, non smaniano per il successo, prendono sul serio il memorabile precetto di Henry James: «Lavoriamo nell’oscurità, facciamo quello che possiamo, diamo quello che abbiamo, Il nostro dubbio è la nostra passione, la nostra passione il nostro compito. Il resto è la follia dell’arte». Forse Antonio Porchia non avrebbe scelto quest’ultima parola, “arte”, per descrivere il suo lavoro. Nato nel 1885 a Conflenti, in Calabria, era emigrato in Argentina all’età di diciassette anni, dopo essere rimasto orfano di padre. La famiglia si era stabilita a Boca, uno dei quartieri più popolari di Buenos Aires e meta designata degli immigrati provenienti dall’Europa. Fino alla morte, avvenuta nel 1968 in seguito a un incidente domestico non privo di connotazioni simboliche (Porchia era caduto mentre potava un ramo del suo giardino), era passato da un mestiere all’altro, senza mai pretendere un’oncia di gloria letteraria. Eppure aveva scritto per tutta la sua esistenza, con la lentezza instancabile di chi stia componendo un’opera segreta. Quattro, cinque aforismi all’anno, sempre che aforismi possano essere definiti i minuscoli poemi in prosa – seicento in tutto – che compongono l’unico libro di Porchia. Senza retorica alcuna, è il libro della sua vita. O, se si preferisce, è la sua vita fatta libro.
Il titolo stesso, Voci, trasmette il senso di un’ineluttabilità metafisica. Il nucleo originario risale al 1943, mille copie stampate a spese dell’autore e poi, per sua iniziativa, spedite in dono alle biblioteche pubbliche argentine. Da lì in poi le riedizioni si susseguono, puntualmente ampliate da nuove schegge di sapienza. Un esemplare finisce sotto gli occhi di Roger Caillois, che nel 1949 lo traduce in francese e da lì in poi sarà uno dei principali sostenitori dell’occulta grandezza di Porchia. Nel 1963 Alejandra Pizarnik (anche lei argentina, anche lei sibilla inascoltata del Novecento) saluta Voci come il libro «più solitario, il più profondamente solo che sia mai stato scritto al mondo». Proprio per questo, è il libro capace di consolare: «Come se qualcuno – confessa Pizarnik – mi avesse dato ragione sull’unica cosa in cui volevo averla». Quale sia questa cosa irrinunciabile non viene precisato, ma è così che si esprimono i mistici. Già apparso nel 2019 all’interno di una scelta di lettere della poetessa ( L’altra voce, Giometti & Antonello), il messaggio indirizzato a Porchia spicca adesso in apertura della vasta selezione di Voci curata da Andrea Franzoni per Argolibri (www.argonline.it). Non si tratta della prima apparizione italiana di questo capolavoro inavvertito: nel 1994 era uscita dal melangolo la versione approntata da Ernesto Franco, seguita nel 2013 da quella di Fabrizio Caramagna per la torinese Genesi. La nuova traduzione, che rinell’isolamento prende l’editio princeps del 1943, si segnala per una particolare felicità nelle soluzioni linguistiche, guidate dalla logica controintuitiva dell’«economia del dono», così descritta da Franzoni nella nota conclusiva: «Un buon traduttore porta al lettore quel silenzio che il lettore stesso riempirà dei suoi significati attuali. Così spero di essere riuscito a fare con questa parola poetica, che è appena una parola, e che appena diventa una parola scompare».
Ma se non è arte, che cos’è la scrittura di Porchia? Un attraversamento dell’ombra, un ascolto del silenzio che si produce dopo che la parola si è votata all’esilio, un gioco a nascondersi, perché solamente da un nascondiglio si può dire qualcosa di sé, ossia qualcosa di vero. Questa deliberata marginalità è il tema centrale della ricerca di Porchia, ammesso e non concesso che un centro si possa individuare all’interno di una riflessione che è nello stesso tempo ricorsiva ed erratica. Di nuovo, è la lingua dei mistici a imporsi, l’illuminazione imprevedibile che può manifestarsi ovunque, in mezzo alla folla come del deserto. Non stupisce, da questo punto di vista, che agli amici capitasse di trovare Torchia inginocchiato davanti a una rosa. «Le piccole cose sono l’eterno e il resto, tutto è il resto è il breve, il brevissimo», recita una delle Voci tradotte da Franzoni. Prima di Porchia, era stato il visionario William Blake a predicare la necessità di «vedere un mondo in un granello di sabbia». Lo stesso Blake che, con grande scandalo dei londinesi del primo Ottocento, non si vergognava di aggirarsi nudo nel suo roseto, come un Adamo redivivo nel suo Eden ritrovato.
Siamo, ripetiamolo, nel territorio della mistica, dove non si dà contraddizione e ogni parola assume pieno significato nel momento in cui si rovescia nel suo contrario: «Temere – afferma per esempio Porchia – non è umiliante quanto essere temuti». L’illusione del potere è un elemento decisivo nella tessitura di Voci, declinato per lo più nella dimensione di una critica radicale al concetto stesso di forza. «L’uomo è debole e lo è ancora di più quando fa il forte per professione», si legge tra l’altro. Non potrebbe essere altrimenti, considerato che «si vive nella speranza di diventare un ricordo» e «il ricordo è un po’ di eternità». Per Porchia tutto si gioca sul crinale dell’ineffabile e dell’incommensurabile, caratteristiche precipue dell’ombra. Anzi, delle ombre: «alcune nascondono, altre rivelano», osserva. E ancora: «In piena luce non siamo nemmeno un’ombra». Una frase, questa, che si ritrova pressoché identica quarant’anni dopo in un romanzo di Mario Pomilio, Il Natale del 1833. Certo, potrebbe essere una citazione obliqua e perfino involontaria, generata magari dalla versione di Caillois. Ma potrebbe anche essere che anime diverse, guardandosi allo specchio, incontrino lo stesso enigma e ne diano testimonianza. «Impossibile andare oltre – avverte Porchia –. E oltre c’è l’abisso».