il Fatto Quotidiano, 9 aprile 2023
Intervista a Enrico Bertolino
È perennemente una macchina spara parole. Spara battute. Freddure. Neologismi. Ricordi intrecciati a battute. E tutto con una tonalità tutta sua, lieve, calibrata sui millesimi di secondo, sul rilascio lento – e prolungato – d’ironia.
Enrico Bertolino è una anomalia ben organizzata. L’apparenza inganna, la sostanza stupisce.
La sua dote.
Cerco di convivere con tutti; poi quando sto sulle palle mi fa pure piacere.
Perché?
A quel punto non devo più conviverci; penso spesso alla frase del papà di Kennedy.
Quale?
Molti dei miei colleghi dimenticano da dove sono partiti e all’improvviso si sentono Clark Gable o Gilberto Govi; in realtà vorrei dirgli: “Scusa, ma non sei lo stesso che ho conosciuto ai tempi di quel localaccio ad aspettare che ci pagassero dopo i camerieri?”.
E la frase di Kennedy?
A chi lo rimproverava della troppa pressione sui due figli, rispose: “Si ricordi che io c’ero quando lei non c’era e ci sarò quando non ci sarà più”.
È kennediano?
No, ma sono stati due trombatori e sotto questo profilo hanno la mia stima; poi sono due splendidi rappresentanti della categoria “faccia come il culo”.
Parte della sinistra ama i Kennedy.
E stiamo messi bene, ma ora ci redimiamo con la Schlein; le donne sono ovunque e noi uomini possiamo tornare a giocare in bisca e a rovinarci con le ballerine moldave…
Quali caratteristiche da maschio alfa mantiene?
La pinguedine. Sto ingrassando. E mi incazzo per il calcio.
Ancora, a 62 anni?
Tantissimo, per questo vado poco allo stadio, altrimenti mi inquadrano nei momenti peggiori, durante i quali bestemmio e si legge il labiale.
Partecipato a risse?
No, l’ho solo prese una volta; non c’entravo niente.
Dicono tutti così.
È vero! Ero al Bernabeu invitato per Real Madrid-Lazio; alcuni insultano la moglie di Simeone, presente allo stadio e già allenatore dell’Atletico. Mi rivolgo a uno di loro, il più avvelenato, e lo invito a smetterla. Peccato che nel frattempo arriva proprio Simeone a regolare i conti, allora mi piazzo in mezzo per evitare la rissa e ovviamente ricevo il ceffone.
Un classico da paciere.
Una pappina clamorosa; una cosa del genere non mi è capitata neanche ai tempi delle trasferte per l’Inter, quando poverissimo finivo per sbaglio in mezzo ai tifosi avversari.
Perché per sbaglio?
Errore del presidente della squadra per la quale giocavo: ogni tanto mi allungava dei ticket, e ogni tanto si confondeva e prendeva quelli nel settore degli avversari. Ho visto un Torino-Inter in mezzo agli ultrà granata che indossavano il casco con le corna.
Per salvarsi sfruttava le sue doti comiche?
No, perché uso l’ironia e l’ironia non la capiscono tutti, anzi in alcuni casi rischi di peggiorare la situazione; (sorride) la fregatura è che sono alto, quindi qualcuno mi può giudicare come pericoloso.
Lo sguardo non è da killer.
Se becco un pugno sono capace di scoppiare in lacrime; eppure il profilo del killer è proprio quello dell’uomo mite, quello dell’“è sempre stata una persona meravigliosa” quando si intervistano i vicini dopo la strage.
Del “non lo avrei mai detto”.
Come Messina Denaro; di recente sono stato a Mazzara del Vallo e in quel posto non si può vivere per trent’anni da latitante, è impossibile: si conoscono tutti e tutti controllano tutti; (pausa) però ho chiesto.
Cosa?
“Scusate, ma lo avete visto? Sapevate?”. “Abbiamo risposto agli inquirenti”.
È mai stato incendiario?
No, mi è solo andata a fuoco la vasca di casa; per essere incendiario te lo devi poter permettere, mentre da ragazzo mi incazzavo giusto per la politica, poi ho capito che la salvezza è diventare ondivago.
Quindi è ondivago.
Rientro nella categoria degli “appassionati di perdenti”.
È amico di Letta da quando non era un perdente.
A lui voglio bene, ci siamo conosciuti ai tempi della Fondazione “VeDrò”; ci ritrovavamo a discutere con personaggi interessanti, e imparavi…
Il “però”.
A un certo punto si sono infilati un po’ tutti, è venuto pure Renzi e quella gente lì. Alla fine eravamo in 850 più tutte le scorte. Ho detto basta.
Le scorte sanno tutto?
(Ride) Due di loro prestavano la casa a Roberto Saviano per accoppiarsi come un canarino.
In apparenza sembra un milanese rampante.
Per i miei 11 anni in banca.
Ha più volte parlato di un’infanzia non agiata…
Però non ero povero, con la mia famiglia rientravamo in quel proletariato emergente dalle sabbie mobili; (pausa) mia madre il venerdì ci comprava la pizza bianca, noi contenti, in realtà era l’unico alimento che ci potevamo permettere perché erano finiti i soldi per carne e pesce; (pausa) però non eravamo gli unici, in quel periodo era così, poi è arrivata la banca.
Le piaceva come lavoro?
Sì, perché mi permetteva uno stipendio, non dovevo chiedere più ai miei; (sorride) ho passato l’anno del militare al pelo, con mio padre che ogni tanto mi ripeteva “guarda che facciamo fatica”; aveva pure tentato di corrompere un maresciallo ed era andata malissimo.
Cioè?
Gli aveva mandato una pianta per sollecitare l’esonero; avevo alcuni amici che per ottenere l’esonero si spaccavano le dita delle mani nella portiera dell’auto; (sorride) in teoria il maresciallo era amico dello zio, e invece sono finito prima a Macerata e poi in Veneto.
In caserma intratteneva?
No, ero solo un deficiente, uno che aveva studiato perito turistico; credevo ci fosse gnocca.
La gnocca a che età l’ha scoperta?
Tecnicamente molto tardi, prima giocavo a pallone.
Andavano in conflitto?
L’allenatore ripeteva: “O le ragazze o il calcio”.
Vecchia scuola.
Per un po’ di anni gli ho creduto, poi visto che stavo sempre in panchina, ho lasciato stare; (sorride) avevamo un massaggiatore: secondo lui toccando l’inguine capiva le nostre colpe; eravamo convinti di diventare calciatori professionisti.
Cosa le è mancato per il salto?
Il talento.
Da cabarettista conta più il talento o altro?
Da attore è importante il talento, poi da maturare nelle accademie, mentre per il cabarettista è importante il senso della sfida con te stesso. Perché quando sei sul palco il pubblico è impietoso…
Viene colto da timore?
Prima dello spettacolo? Sempre; (sorride) all’inizio della carriera si apriva il sipario e trovavo visi sgomenti di chi si domandava chi fossi; una volta in un ristorante uno mi disse: “Perché non fai il mimo?”. “Perché, scusi?”. “Almeno non parli e non rompi i coglioni”.
Perfetto.
Nel curriculum ho pure i matrimoni, alcuni appresso ai Fichi d’India; loro due bravissimi, talenti come Luca Medici.
Zalone lo conosce da quando non era famoso.
Lo portai in Sicilia per uno spettacolo; il pomeriggio alle prove mi chiedono: “Quanto tempo gli lasciamo per il suo show?”. “Quello che vuole”; “Ma gli altri comici si offenderanno”. “Saranno d’accordo”. E così è andata.
Fenomeno.
Ha saputo togliersi dal circo mediatico e ha alle spalle il Conservatorio.
Lei ha la sindrome dell’impostore?
Per fortuna no, altrimenti, ansioso come sono, sicuro morirei; (pausa) i corsi di formazione mi hanno insegnato quanto è importante l’autostima.
L’ha mai persa?
Persa no, incrinata sì.
Quando?
Per un programma sono stato ammazzato da un critico televisivo e all’inizio ho cercato di far finta di niente…
Aldo Grasso del Corriere.
Sono iscritto all’associazione “vittime di Grasso”; scrisse cose pesanti, ma il problema è che aveva delle ragioni; in queste occasioni, se hai autostima, sostieni che è lui ad aver sbagliato; se l’autostima non c’è passi i due giorni successivi come se ti avessero picchiato.
Due giorni: è andata bene.
In realtà sono state settimane; in Festa di classe (su Rai2) dopo tre puntate venni sostituito da Pippo Franco; eppure era partito bene, share altissimo e tutti mi trattavano da star; poi su Canale 5 mi opposero Scherzi a parte e fu il crollo: da quel giorno divenni una merda, niente telefonate, niente attenzioni, parcheggiato in un residence con i muri arancioni anni 70.
Come ne è uscito?
Ho chiamato il mio amico Sandro. Mi ha portato in un ristorante vicino a Fiumicino. Entro e mi appello al proprietario: “Mi scusi, posso mangiare qualcosa di veloce? Ho l’aereo tra poco”. Non si è scomposto, si è girato e rivolto a un cameriere: “Je famo er conto ar signore?”. Mi è cambiato l’umore.
Paolo Rossi confonde la vita reale con il palco…
A me non capita, anche perché amo i ricordi che ti salvano dal pianto; in qualche modo ti evitano la cocaina o altre droghe. Le ha viste.
No, l’ipocondria mi ha salvato, oltre all’educazione cattolica imparata all’oratorio che tanto dà e altrettanto toglie.
Cosa le ha tolto?
È una realtà ovattata, sottrae lo slancio, la possibilità di cavartela ovunque; però alcuni dei miei amici di quartiere li ho persi per colpa dell’eroina; (pausa) abito sempre lì.
Dove?
Da 60 anni all’Isola di Milano.
Berlusconi è di lì.
Abbiamo condiviso il lattaio, il signor Ettore, testimone di una storia meravigliosa; (ride) il piccolo Silvio veniva mandato da mamma Rosa da Ettore, fino a quando mamma Rosa decide di presentarsi a bottega: “Come mai il latte è così caro? Ormai costa 60 centesimi”. “Ma è sempre a 40!”. Il piccolo Silvio ne intascava 20.
L’inizio con Gino e Michele.
Dopo quattro anni di gavetta Raul Cremona mi porta a Zelig: “A che ora mi presento?”. “La mattina”. “Ma non c’è pubblico”. “Le prove sono con Gino e Michele, più gli altri comici che preparano i loro pezzi”.
E com’è andata?
All’inizio male, stramaledivo tutto; pensavo di stare perdendo una giornata di lavoro e poi sembravo un panno da biliardo: giacca e cravatta verdi.
Risultato?
Dopo aver terminato mi siedo davanti a loro. Gino: “Hai un lavoro?”. “In banca”. “Ecco, tienilo; comunque sei bravo, ma non hai la faccia da comico”.
Bocciato.
Come controprova mi offrono dieci minuti di spettacolo. Accetto. Dopo erano ancora nel dubbio; lì è intervenuto Enzo Iachetti: “È bravo”.
Di cosa ride?
Antonio Albanese mi strappa risate e lacrime, Grazie ragazzi è un film bellissimo.
Lei con il cinema non ha un grande feeling.
Perché ho iniziato con il piede sbagliato, con l’ultimo di Alberto Sordi, e tutti me lo avevano sconsigliato, ma per me lavorare con lui era importante; (sorride) noi lo chiamavamo maestro, poi arrivava Valeria Marini e urlava. “Albe’, Albe’”.
E Sordi?
La guardava con benevolenza, come fosse un gatto bagnato; (ride) nella prima scena si girava il matrimonio della Marini. Io stavo sul sagrato. Arriva l’attrezzista e con modi sommari mi domanda: “Che stai a fa’ qua te?”. “Sono un attore”. “Che sei te? A mitomane, vie’ via”. E mi trascinò di peso, fino a quando incontriamo Sordi: “Quello è Bertolino, lascialo lì!”.
È stato deludente conoscere Sordi?
Una meraviglia. Sono pure andato alla camera ardente alle 3 del mattino, pieno di gente, con le persone anziane che distribuivano fiori agli altri. Se ci penso ho la pelle d’oca.
Max Tortora fa Sordi.
Un fenomeno, uno fuori concorso: quando ha interpretato il padre di Cucchi ha raggiunto vette straordinarie; (ride) l’ho anche chiamato, ma non ha risposto subito perché sul cellulare non registra le persone con nome e cognome ma come “cagacazzi1”, “cagacazzi2” e credo di rientrare nei cagacazzi.
Lei chi è?
Un esploratore dell’universo con dentro un capitano Nemo che non capisce una minchia.