Domenicale, 9 aprile 2023
I fidanzati nella barca
Un chiasso perfettamente organizzato ritma da inizio a fine Li zite ingalera, commedeja ppe museca di Leonardo Vinci, scandita sui tempi lievi della commedia di parola, in una narrazione intelligente, screziata di dettagli, giocata su arguti rimandi. Così imposta il suo spettacolo Leo Muscato, nella prima esecuzione assoluta alla Scala di un’opera datata 1722, ai tempi molto famosa e ovviamente in napoletano. Da lì parte il regista, cancellando il banale “napoletanese” di schermi e tv, e invece trasformando la storica lingua locale nel motore di un infinito conversare, incontro astratto di un profluvio di termini incrociati, croccanti, elettrici, allusivi, pieni di vita. I colti parigini illuministi ne uscirono allora cotti e innamorati. Non scontato il successo oggi. Invece: sala piena, pubblico misto, giovani, silenzio per la prima mezz’ora, poi rotto il ghiaccio applausi nei punti giusti, risate, trionfo finale.
Negli Zite bisogna entrare: lo chiede il sipario, un’enorme “gouache” a tutta scena, con una marina intenzionalmente in bianco e nero perché il colore lo daranno i personaggi, negli abiti freschi di Silvia Aymonino, mentre sbucano da una porticina sulla cornice e dallo sfondo ben illuminato in controluce da Alessandro Verazzi. Scorre a porzioni una casa-albergo, con tanto di numeri sulle porte, ricostruita con amabile eleganza nelle scene di Federica Parolini, dove il nastro mobile la scompone e riassembla. Raffinati spiccano i momenti di teatro nel teatro nelle azioni sul tavolo. Una sorpresa la scatenata tarantella a campo aperto, dove tutti i cantanti suonano e danzano, a tempo. Ma la novità, l’invenzione moderna sono le sporcature: già nella Sinfonia il centro cantabile ha di sfondo un parlottio nervoso, dal palcoscenico, da azione in corso; altro parlato verrà aggiunto nelle Arie più malandrine e a doppi sensi (non nelle più toccanti, in proscenio e a sipario calato) infilato con pennellate estemporanee tra i ritornelli obbligati o prima dei “da capo”. Ed è questa una filologia nuova, non ingessata e molto teatrale, condivisa dal direttore rigorosamente anticato Andrea Marcon e che carica di delirio affabulatorio un eloquio che rompe le forme chiuse del barocco. Sta qui la chiave dell’interesse e del successo de Li zite ngalera (I fidanzati nella barca, ma l’originale dice di più) costruiti su una compagnia in squadra affiatata, con Francesca Aspromonte, Chiara Amarù, Francesca Pia Vitale, belle e brave, un po’ simili nel timbro, con la vecchia irresistibile di Alberto Allegrezza, i controtenori Raffaele Pe e Filippo Mineccia, Antonino Siragusa, Marco Filippo Romano, Filippo Morace e persino i due dell’Accademia, Matías Moncada e Fan Zhou.