Domenicale, 9 aprile 2023
Quando è il killer a parlare
Al quarto incontro con Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, Stefania Albertani dice, a sé stessa e ai due criminologi, di aver voluto commettere il delitto per il quale si trova in carcere. Non ha dunque ucciso la sorella per una sorta di automatismo, come da lei stessa dichiarato, ma per scelta. È un passaggio cruciale: Stefania ha recuperato la memoria di quell’atto efferato e con coraggio se ne assume la responsabilità; al contempo rende possibile la costruzione da qui in poi di un suo futuro nuovo, e diverso.
Io volevo ucciderla ruota intorno a una delle «interviste trasformative» che Ceretti e Natali stanno compiendo con autori di reato che implicano attacchi al corpo, attraverso le quali stanno testando e affinando la teoria criminologica avanzata in un loro precedente libro, Cosmologie violente (Cortina, 2009). Il modello da loro sviluppato, che come illustrato dagli autori nella sezione teorica introduttiva poggia sul criminologo Lonnie Athens e si allarga a includere altre correnti della più recente ricerca criminologica narrativa e filosofica, si basa sull’idea che ogni individuo è abitato da quello che chiamano un «parlamento interiore», composto da figure cui assegniamo un ruolo fondamentale nell’orientare le nostre valutazioni e le nostre decisioni. Attraverso serrate conversazioni interiori, è in dialogo con queste figure per noi dominanti che riusciamo a dare un senso al mondo che ci circonda e a noi stessi in esso. Il loro ruolo è orientativo, non deterministico; in contrasto con le pratiche più diffuse, secondo i due criminologi un margine di libertà permane infatti, salvo eccezioni ??(interessante, qui, è il dibattito che rimanda alle neuroscienze e alla neuropsicologia), anche nei casi in cui la vita di una persona si sviluppi in condizioni sociali o psicopatologiche avverse.
Né la composizione di tale parlamento è inscalfibile: possono sgretolarla, mostrandone l’inadeguatezza, eventi drammatici e improvvisi, ma anche percorsi più silenziosi e graduali, come avviene attraverso l’azione interlocutoria, empatica dei due criminologi con Albertani. Azione trasformativa, appunto, basata su un ascolto non giudicante, su sollecitazioni calibrate e miratissime che imprimono accelerazioni alla narrazione, e in generale su una promessa di futuro che per Albertani, dolorosamente inchiodata al suo delitto, risulta impensabile. Ceretti e Natali, con Athens, chiamano la crisi del parlamento interiore «cambiamento drammatico di sé»: il vecchio parlamento va in frantumi, figure nuove possono entrarvi, e con loro può farsi strada un nuovo modo di sentire, pensare, agire, relazionarsi con gli altri, nuovi valori. Tali sono ad esempio anche i processi di radicalizzazione e i percorsi di deradicalizzazione di una persona.
Albertani è cresciuta sentendosi invisibile, all’ombra di un fratello idealizzato e protagonista pressoché assoluto di un parlamento interiore altrimenti asfittico: accanto a lui, solo il padre e la madre. Convinta per l’esperienza fatta in famiglia («orrificante», nella terminologia di Ceretti e Natali) che amare significhi farsi del male, l’orizzonte della sua vita è limitato al sentirsi «liberamente obbligata» a compiacere le aspettative dei suoi «altri significativi» (del fratello e del padre in particolare) – un’operazione che le riesce di necessità solo annullandosi. Un equilibrio precario che si spezza quando fallisce l’azienda gestita con il fratello, e in particolare per la sua condanna: «Devi crepare all’inferno!». Albertani all’inferno c’è già e la frase fa da trigger, la camicia di forza della sua passività si strappa, incomincia a volere e a decidere per sé. Sempre, purtroppo, nell’alveo di una concezione del mondo alterata, dove il confine tra realtà e finzione è labile: Albertani allestisce a sua discolpa una messa in scena che le sfugge di mano e della quale la sorella diventerà vittima sacrificale.
Nel corso dell’intervista, svoltasi in undici incontri nel 2020, Ceretti e Natali indagano con Albertani i pensieri e le emozioni prima, durante e dopo il gesto estremo mettendone a fuoco il senso soggettivo; le permettono di avvertire la possibilità di diventare altro rispetto a quanto è stata. Nella sua vita pian piano entrano figure nuove, cambia il rapporto con il cibo, attraverso cui compensava senso d’impotenza e invisibilità («mangiando il mondo»), si dischiudono canali nuovi attraverso cui esprimersi. Nulla potrà togliere ad Albertani il peso della responsabilità del delitto compiuto, cosa che Ceretti e Natali non mancano di ribadire più e più volte. Ciò stabilito: cosa farne? Può un’esistenza che si sia macchiata di un simile delitto riprendere a vivere? Si può diventare una persona diversa e migliore degli atti compiuti in passato?
Sono domande fondamentali, oltre che per Albertani, anche per il nostro sistema di giustizia. Io volevo ucciderla dimostra che anche gli atti più efferati possono essere avvicinati, che attraverso un lavoro dialogico queste narrazioni, se la persona lo vuole, possono trasformarsi e generare una storia nuova. Un processo riparativo che ha valore per la società, oltre che per l’individuo – come si sottolinea a chiusura del volume –, dove compaiono anche testimonianze della stessa Albertani e del direttore del carcere di San Vittore Giacinto Siciliano, nonché un testo della psicoanalista Laura Ambrosiano.
Oggi che grazie alla riforma Cartabia la giustizia riparativa è prevista dall’ordinamento italiano, Ceretti e Natali ne rafforzano la prospettiva, introducendo con l’intervista trasformativa uno strumento utile a favorire il successo di eventuali percorsi di mediazione penale. Perché la giustizia riparativa possa affermarsi pienamente è però cruciale che quanto maturato in ambito specialistico diventi cultura diffusa, superando una visione illusoriamente perfezionistica e sterilizzante di società che mira a neutralizzare gli autori di reato e a sottrarli allo sguardo pubblico. Al di là del suo portato teorico, questo volume, insieme al Libro dell’incontro (a cura di Ceretti, Guido Bertagna e Claudia Mazzucato, il Saggiatore 2015), dedicato agli autori delle violenze compiute negli anni di piombo e alle loro vittime, rappresenta un contributo preziosissimo in questa direzione, illustrando la metodologia impiegata e il suo potenziale impatto trasformativo in presa diretta. Parola per parola, senza che il male ci accechi.