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 2023  aprile 09 Domenica calendario

Hollywood raccontata da chi ci lavora

La più crudele e la più deprecabile città del mondo. Senza cuore e senza radici. È il lamento un po’ ipocrita di chi è rimasto ai margini, ma spesso anche di chi vi ha trovato fama e fortuna. Per trasformare gli acri di terreno desertico nell’industria culturale per antonomasia, il cuore non serviva ma le radici sì. E le radici di Hollywood vanno cercate a molte miglia di distanza, in riva all’Hudson, tra le costruzioni in mattoni sulla 14th, dove avevano sede le società i cui film venivano in parte già girati in California. Nell’autunno del 1912 Lillian e Dorothy Gish trovarono l’indirizzo della Biograph sull’elenco telefonico: vi si recarono a cercare l’amica Gladys Smith, benché la loro madre ne compiangesse la sorte: «Nei movies per vivere!». Trovarono Gladys, che ora si chiamava Mary Pickford, e un’ora dopo erano davanti alla macchina da presa. Lavorare nel cinema era semplice: unico requisito richiesto la disponibilità immediata. Ancora meglio se sapevi andare a cavallo o far ridere. In quei frenetici mesi, gli ultimi set ancora ormeggiati all’Est Coast, s’annunciava tutta la voracità di una macchina capace di trasformare energia umana in potenza delle immagini. Di lì a poco il bosco di agrifogli era già il luogo in cui i “due rulli”, in una sola settimana, venivano girati, montati, stampati, impacchettati e spediti. Almeno per un secolo niente ha definito l’America meglio di Hollywood.
Con la spigliatezza della cronaca o con la ponderosità del saggio la storia di Hollywood è stata raccontata mille volte. Ma udirla, seppure per frammenti, dalla voce di decine di registi, produttori, attori, tecnici, sceneggiatori, scenografi, direttori della fotografia, musicisti che discutono animatamente tra loro è tutt’altra cosa. Hollywood: The Oral History, curato da Janine Basinger e Sam Wasson (uscito in Usa come strenna natalizia alla fine dello scorso anno), lo permette. Il vaso di Pandora scoperchiato dai due autori si trova all’American Film Institute: là sono custodite migliaia di ore di conversazioni registrate in occasione di seminari tenuti con gli studenti dalla gens hollywoodiana a partire dal 1969, quando a varcare per primo la soglia fu Harold Lloyd. Basinger, nota studiosa, e Wasson, scrittore, hanno setacciato migliaia di ore di audio, fin qui gelosamente conservate, e seguendo il filo degli argomenti hanno montato brani e passaggi di quasi quattrocento personalità riuscendo a dare l’impressione, di volta in volta, di un’unità di tempo e luogo in realtà fittizia. L’artificio è solo inizialmente straniante, poi pagina dopo pagina, il lettore ascolta con naturalezza Capra e Wilder, Mc Carey e Hawks, Katharine Hepburn e Bette Davis, Hitchcock e Lang, Bogdanovich e Cassavetes dialogare a più voci concordando o dissentendo tra loro come fossero realmente riuniti davanti a un caminetto o sdraiati su delle chaises longues sulla spiaggia di Santa Monica.
La mancanza della pur minima conoscenza di un set non impedisce a Capra di essere regista; né la totale ignoranza del mestiere ostacola la nomina di Leo Mc Carey a segretario d’edizione, fatta, seduta stante, durante una partita di golf. Lewis Milestone tornato dal fronte della Prima guerra mondiale si ritrova, ancora in divisa, assistente alla fotografia mentre a Hawks, addetto alle didascalie della Famous Players, vengono richiesti in pochi giorni quaranta soggetti per altrettanti film (se la cavò rubando a Conrad e London). L’aneddotica si confà a vecchi ricordi e appaga il lettore ma le peripezie di questi e di tanti altri colleghi di tutte le professioni misurano bene lo stato febbrile della macchina hollywoodiana, un mostro che nei primi anni cresce nutrendosi di quella contagiosa eccitazione che inebria chi le si avvicini. Complice l’assenza di regole e di scrupoli: in quell’angolo di deserto non si tiene conto dei brevetti, si rubano la pellicola, le cineprese e persino le comparse perché l’importante è arrivare primi nel soddisfare le richieste degli spettatori. Così come registi non si diventa per merito o per le buone idee ma piuttosto perché si ha voglia di urlare in un megafono e si sa comandare un gruppo raffazzonato di attori e maestranze. O si è in grado di resistere alle assurde pretese di produttori che protestano per i troppi primi piani («ho pagato per l’attore intero», si sente rimproverare Griffith). Il racconto di ciascuno, anche se abbellito dall’ego, favorisce epifanie e rivela legami imprevisti. Chi si aspetterebbe da Hitchcock la confessione d’avere appreso molto da Chaplin? O da Gene Kelly quella di dovere la propria agilità alle movenze di Keaton? Talvolta l’apparente simultaneità delle conversazioni getta luce su intrecci mai chiariti come il balletto di quattro registi Cukor, Vidor, Sam Wood e Fleming intorno alla regia di Via col vento.
Gli inizi, il prevalere del comico, la nascita delle majors, l’avvento del sonoro (Garbo talks, ma non come si pensava), il codice Hays sono le sezioni del libro in cui l’intreccio di memorie e i commenti aprono più facilmente a prospettive trascurate. Dapprima fu davvero il verbo. Hollywood nasce contro la pagina scritta; non solo in senso figurato: niente carta, niente testi redatti, soggetti raccontati oralmente e niente dialoghi da imparare. Il regista aveva in mano un foglio in cui era impresso solo “scena di battaglia” o “scena d’amore”, come racconta un costernato Frank Capra. Lilian Gish non ha memoria di sillabe vergate a penna se non quelle degli assegni. I ricordi della costumista Edith Head e l’attrice Gertrude Astor lasciano intendere fino a che punto l’universo femminile fosse inizialmente coinvolto in tutte le fasi: solo con il parlato le donne furono relegate sullo schermo. Naturalmente cuore della memoria della comunità è l’epoca dello studio system in cui le mansioni si cristallizzano, i tycoon sposano le star e confliggono con i registi. Centinaia di dichiarazioni lasciano intendere come, con poche eccezioni, l’ambiente resti compatto nella difesa di un modello produttivo che per trent’anni ha valso l’affermazione del mito hollywoodiano. Lo riassume bene lo sceneggiatore Walter Reisch (Ninotchka) irridendo, ante litteram, all’auteur: «non è possibile che sia cinema quello in cui una sola persona, progetti, scriva, diriga, monti l’intero film». Che da quelle parti, all’epoca, si sarebbe volentieri sfoderata la colt alla parola cultura, intesa all’europea, è più che un sospetto. Non a caso per molti Faulkner e Fitzgerald sono sceneggiatori babbei, Welles incomprensibile, i critici inutili idioti.
Hollywood: The Oral History copre l’intera storia dell’industria, dalla nuova Hollywood a oggi, ma le voci di Tarantino o di Jordan Peele non hanno il fascino della patina del tempo. Non spaventi il volume del libro: la mimesi dell’oralità abbatte ogni steccato tra chi “parla” e chi “legge”.