Domenicale, 9 aprile 2023
I poteri del mercato
Se anche un cauto e accorto banchiere centrale come Fabio Panetta – siede nel board della Bce – non esita a dire che «bisogna impedire qualsiasi abuso di potere del mercato» e accende un faro su una crescita anormale dei profitti, a loro volta potenziali propagatori di inflazione, diventa utile la lettura de Il paradosso del profitto di Jan Eeckhout.
La tesi dell’economista dell’Università di Barcellona (che ha insegnato a Princeton e alla New York University) è che un ristretto gruppo di mega imprese, superstar dei listini mondiali, ha condizionato il moderno capitalismo grazie alla conquista delle leve della tecnologia, creando disparità enormi nel mercato – che è stato soffocato – e soprattutto nei trattamenti economici dei lavoratori. Ne è derivato un capitalismo pro impresa a danno del capitalismo pro mercato, quello virtuoso a cui il mondo dovrebbe tornare al più presto, secondo l’autore.
Per Eeckhout le grandi Big Tech del mondo digitale applicano lo schema che fu delle ferrovie americane: monopolio, costi operativi inferiori ai concorrenti, prezzi alti e margini di profitto superiori a quelli delle aziende concorrenti del vecchio mondo analogico (o a trazione animale nel caso delle ferrovie). Ciò desertifica la concorrenza e valorizza soltanto l’élite che gestisce le leve della tecnologia con remunerazioni stellari, riducendo invece le dinamiche salariali del resto del mondo aziendale. Oggi – ci avverte sempre il volume – «in un’impresa l’1% dei dipendenti in cima alla scala retributiva guadagna in media 20 volte di più del restante 99% dei dipendenti di quella stessa impresa».
Il libro è contrappuntato da numerosissime storie di imprese e persone per dimostrare che «le forze di mercato – e la mancanza di una concorrenza alle grandi imprese – stanno tradendo non solo i poveri, ma anche la classe media e i piccoli imprenditori. Il capitalismo dei giganti sta affossando la maggior parte delle famiglie che si ritrovano quasi sempre in condizioni peggiori anche a confronto con la generazione dei loro genitori».
Eeckhout scava nella capacità di influenza politica che hanno i grandi player del capitalismo globale al fine di perpetuare i loro vantaggi e il loro modello diseguale di sviluppo. Lo sguardo su questa devianza è lo stesso di Robert Reich, l’ex ministro del Lavoro di Bill Clinton, quando negli anni 90 avvertiva del rischio di creare una classe di analisti simbolici, una nuova aristocrazia apolide e poco incline alla solidarietà fiscale destinata a perpetuarsi proprio alimentando il capitalismo della diseguaglianza. O di Paul Collier che invoca una resipiscenza etica da parte dello stesso capitalismo, pena la sua estinzione. O ancora di Mark Fisher nella sua accorata crociata anti thatcheriana.
Ma il paradosso di Eeckhout appare più ingenuo e semplificativo.
In sostanza l’economista chiede una concorrenza delle imprese nel mercato e una regolazione del mercato da parte dell’autorità della concorrenza. Un refrain già visto. Che, tra l’altro, dovrebbe far funzionare al meglio la mano invisibile ora bloccata «dall’assenza di tali istituzioni». Per questo la concessione di più poteri alle authority contro i monopoli, dovrebbe essere considerato – per l’autore – un tema urgente e planetario come è diventata la lotta al cambiamento del clima. Perché il capitalismo distorto porta non solo a un grave tasso di frustrazione sociale, ma anche a un peggioramento delle condizioni esistenziali, di salute e benessere, a un azzeramento della mobilità delle persone e delle idee.
C’è qualcosa di stonato o di non meglio precisato nella polemica del volume, perché in realtà le autorità antitrust (e non solo) esistono eccome, basti ricordare quella europea che ha bloccato Microsoft o le pronunce recenti dell’authority sulla privacy che ha interdetto l’intelligenza artificiale di ChatGpt o l’antitrust italiano che indaga su Meta. Lo stesso Eeckhout dice che «non esiste una panacea per guarire dal potere di mercato». Ma il volume tratteggia una governance ideale di un’eventuale autorità della concorrenza: almeno 30mila specialisti con presenze locali articolate vicine ai mercati, modello Federal Reserve; attenzione alla prevenzione e regolazione piuttosto che alla revisione e repressione, soprattutto concentrata – nel caso delle superstar tecnologiche – sulla interoperabilità. Con un must: considerare le fusioni come eccezione e non come regola. Ciò che manca è una vera riflessione su quali siano oggi i confini del mercato e, dunque, quale debba essere il raggio d’azione di un’autorità antitrust degna di questo nome. I mercati sono globali, nonostante tutto, e serve poco ricorrere ai luoghi comuni delle lobby onnipotenti e «luogo di corruzione legalizzata» o della Borsa che macinerebbe record scandalosi durante la pandemia.
Troppo semplice o troppo semplificato.
Il tema esiste e coinvolge lo stato di salute delle nostre democrazie, il grado evolutivo dei nostri sistemi sociali e di welfare, la capacità di dialogo tra le rappresentanze dei corpi intermedi (laddove esistano). Perché anche questo è capitalismo. Interroga soprattutto la politica e la sua agenda. Tuttavia bisogna evitare di generalizzare l’idea che tutta la politica sia ancillare agli interessi delle grandi corporations.
Ma nel contempo bisogna evitare – come avverte Eeckhout citando La grande livellatrice di Walter Scheidel – che alla fine solo «la violenza di massa e le catastrofi naturali» siano le uniche forze davvero in grado di ridurre la diseguaglianza. Non c’è riuscita la pandemia e certo non deve riuscirci la violenza.