Domenicale, 9 aprile 2023
Il principio ci fu l’esodo
«Dal tuo stellato soglio – invoca Mosè nell’opera che gli dedicò Rossini – Signor, ti volgi a noi. / Pietà de’ figli tuoi. / Del popol tuo pietà». Lo segue, sempre implorando pietà, il Coro dei figli d’Israele in fuga dall’Egitto, inseguiti dal faraone col suo potente esercito. Ed è canto persino più intenso del Va pensiero verdiano, pure intonato da Israele prigioniero in Babilonia. Matteo dà al suo Vangelo un disegno che riprende quello dell’Esodo. Nei funerali cristiani dei primi tempi i fedeli accompagnano il defunto alla sepoltura intonando il Salmo 113 della Vulgata, In exitu Israel de Aegypto, ricordando il passaggio dell’anima individuale dal peccato alla grazia, dalla schiavitù della vita mortale alla libertà della gloria eterna. Gli spiriti che giungono all’isola del Purgatorio sul «vasello snelletto e leggero» guidato dall’angelo e sospinto sopra le acque dalle sue ali, cantano il medesimo Salmo nel Purgatorio di Dante. Nell’Epistola a Cangrande, esso serve addirittura da esempio del quadruplice modo di leggere la Bibbia e la Divina Commedia, e l’uscita dall’Egitto prefigura la redenzione di Cristo. Nel Corano Mosè, il primo credente musulmano, è predecessore e modello di Maometto. I Puritani fuggono dall’Europa e cercano la Terra Promessa nel Nuovo Mondo, fondandovi città dal nome di Salem o New Canaan. I Neri d’America cantano lo spiritual Go down, Moses: «Scendi, Mosè, giù nel paese d’Egitto, di’ a Faraone: Lascia andare il mio popolo». Sperano nella libertà che otterranno se riescono a fuggire dalla schiavitù del Sud.
E poi, come dimenticare, tra i tanti, il quadro di Turner Luce e colore – La mattina dopo il diluvio – Mosè scrive il Libro della Genesi, sfera radiosa e rutilante con alcuni densi nodi d’ombra? Oppure il Mosè di Michelangelo, la grande, possente statua dal volto corrucciato che dettò a Freud, nel 1913, Il Mosè di Michelangelo e la cui ombra certo dovette ritornargli alla mente quando scrisse L’uomo Mosè e la religione monoteistica? L’Esodo di Assmann contiene ben quaranta illustrazioni, e allusioni all’intero immaginario che il secondo Libro della Torah, il Libro dei Nomi o Esodo, ha generato nei millenni fino all’Eleazar di Tournier: non da ultimo al racconto lungo che Thomas Mann, ancora preso dalla saga egiziana di Giuseppe e i suoi fratelli (della quale l’autore è stato in parte curatore ed è esperto commentatore), dedicò a La legge. Né è il primo libro che Assmann dedica a questo tema: lo precedono, in questa stessa collana di Adelphi, Mosè l’egizio e La distinzione mosaica; presso il Mulino, Non avrai altro Dio, Dio e gli dei, Verso l’unico Dio; da Einaudi La memoria culturale, con due importanti capitoli tra Egitto e Israele.
Egittologo, perciò – con una passione importante per la musica, visto che ha scritto sul Flauto magico di Mozart, sulla Missa solemnis di Beethoven, sull’Israel in Egypt di Händel, e sul Moses und Aron di Schönberg – ma in realtà storico della cultura e delle religioni, Assmann punta tutto su Mosè il personaggio e sull’Esodo (e il Deuteronomio) come racconto degli eventi che portano all’uscita del popolo ebraico dall’Egitto. Personaggio ed eventi avvolti nel mistero. Per cominciare, chi è Mosè, un ebreo che conduce il suo popolo e dà ad esso la Legge, o un Egizio che si ribella alle proprie autorità? Perché Dio cerca di farlo morire dopo avergli affidato, dal roveto ardente, la missione di salvare Israele (Esodo 4, 24)? Perché non lo fa entrare nella Terra Promessa? E qual è la relazione tra Yahweh ed Ekhnaton, e in generale con le divinità supreme delle culture circostanti («non avrai altro dio all’infuori di me»)? Cosa, precisamente, significa il Patto tra Dio e Israele, che cosa è la Legge? E infine: Mosè è davvero, come sembrano indicare diversi passi dell’Esodo e del Deuteronomio, l’autore di quei libri, o addirittura di tutto il Pentateuco, come si credeva nei tempi antichi?
Assmann risponde a tutti questi interrogativi – meno l’ultimo, per il quale si vedrà Jean-Pierre Sonnet, The Book within the Book (Brill Academic Pub) – con una costruzione grandiosa, che parte dalla narrazione fenomenale del Libro per penetrare nei suoi nuclei mitici costitutivi da egittologo «che opera nel campo delle scienze culturali». A poco a poco, dal tema e dalla struttura, prosegue verso il contesto storico, alla memoria che porta alla costituzione del testo. Entra, infine, nell’Esodo stesso, con una sezione dedicata alla nascita e all’educazione di Mosè, e poi una sosta, lunga e affascinante, sul roveto ardente, con breve deviazione verso il Moses und Aron di Schönberg. La rivelazione del Nome, eheyeh asher eheyeh , Io sono Colui che sono, è un gioco di parole su YHWH, e in realtà «Dio lascerebbe dunque aperta la questione del nome. L’“Io sono mi ha mandato a voi” suona infatti un po’ come il “Nessuno” di Odisseo rovesciato in positivo». A questo punto si apre una fuga stupefacente attraverso Nicola Cusano, Ermete Trismegisto, Lattanzio, Plutarco, Reinhold, Kant e Schiller, il quale scrisse, tutti riassumendo: «nulla è più sublime della semplice grandezza con cui essi parlavano del creatore del mondo. Per contrassegnarlo nel modo più deciso non gli diedero alcun nome». Commenta Assmann: «Questa interpretazione è di un’audacia impressionante. Il Dio della Bibbia ebraica, o per meglio dire la teologia del patto, sarebbe dunque un’invenzione, l’adeguamento di un’idea di Dio molto elevata, filosofica, astratta, alla capacità di comprensione delle persone semplici».
Perché, appunto, di invenzione della religione si sta parlando (The Invention of Religion è il titolo che il libro di Assmann ha in inglese). E «religione» vuol dire «legare assieme». Per diventare religione tutto questo ha bisogno del Patto, quello che Mosè stipula con Dio sul Sinai e che sostituisce o integra l’alleanza con Abramo: quello che tutto il popolo d’Israele sottoscrive salvo poi tradirlo con il vitello d’oro. E al Patto Assmann dedica tutta la terza, e ultima, sezione del volume. Perché un patto implica fiducia e fedeltà, quelle di Israele al suo Dio: cioè fede. Il capitolo 7 del Deuteronomio è chiarissimo: «Sappi, dunque, che solo il Signore, il tuo Dio, è Dio, il Dio fedele, che mantiene l’alleanza e la benevolenza per coloro che lo amano e osservano i suoi comandamenti fino alla millesima generazione, ma che ricambia istantaneamente coloro che lo rigettano, abbattendoli». Il Patto diviene contratto e legge, poi culto e, con la Torah, memoria: «patria portatile», secondo la definizione di Heine. Ma il Patto cambia, anche, la storia del mondo, perché per poter essere istituito esso deve necessariamente essere preceduto in concatenazione da tutti gli eventi della storia sacra dalla Creazione sino alla discesa di Giuseppe e di Giacobbe in Egitto, alla schiavitù e alla liberazione. D’altra parte, esso è discriminante rispetto al futuro. «La conclusione del patto è la grande svolta epocale che trasforma la preistoria in storia». Nel penultimo episodio dell’Ulisse di Joyce, la Voce anonima che interroga per più di ottanta pagine domanda: «quale enigma autodimostrantesi ponderato… per trent’anni Bloom ha ora… silenziosamente e all’improvviso compreso?». La risposta è: «Dov’era Mosè quando si spense la candela?».