La Stampa, 9 aprile 2023
Il primo album di Lola Lennox
Il duetto con la madre Annie su There Must Be An Angel per il Global Citizen One World: Together at Home è stato visto online da oltre 270 milioni di persone. A due anni di distanza da quell’evento, Lola Lennox è più che pronta a spiccare il volo da sola, pur con il sostegno sempre presente della famosa madre. Il suo disco di debutto, Dreamer, vede infatti tra i produttori anche Annie. «L’ho intitolato così perché senza la capacità di sognare non sarei qui», dice lei in collegamento video da Los Angeles, dove ormai vive da anni. Trentadue anni, figlia oltre che di Annie del produttore cinematografico israeliano Uri Fruchtmann, con una sorella più piccola, Tali, ormai famosa come modella, Lola è cresciuta però lontano dai riflettori, dal momento che la madre «non si è mai nutrita dello stile di vita delle celebrità, è stata una mamma normale e anzi quando eravamo piccole, per un periodo di tempo ha rinunciato ai tour pur di stare con noi».
È cresciuta circondata da musicisti, quando di preciso ha deciso che sarebbe stata anche la sua carriera?
«Non c’è stato un momento specifico, ma ci sono stati molti momenti incrementali. Ho sempre sentito forte il potere della musica. A scuola ho studiato canto e ho iniziato subito a scrivere, avevo un piccolo taccuino su cui annotavo le mie canzoni. A 17 anni ho frequentato la Royal Academy of Music, anche se non avevo intenzione di diventare una cantante d’opera, non era il mondo per me».
Come mai?
«È un ambiente troppo tradizionale e io ero giovane e interessata a altre cose, tra cui le feste e gli amici. Detto questo è stata un’esperienza straordinaria, una curva di apprendimento meravigliosa, trascorsa con un gruppo di giovani musicisti talentuosi».
Quali sono gli artisti che hanno formato il suo gusto musicale?
«Artisti della vecchia scuola. Aretha Franklin e Dusty Springfield, ad esempio, ma anche artisti recenti che fondono il nuovo mondo con il sentimento soul vecchio tipo. Non so se ha sentito parlare di questo nuovo gruppo dal Regno Unito, si chiamano Flow, ma penso anche a Taylor Swift, Phoebe Bridgers. Mi piacciono gli artisti di oggi che sanno di fresco, di eccitante, ma che hanno le radici in qualcosa di antico».
Pensa di avere un’anima antica?
«Quando interagisco con le persone mi sento giovane, sono energica, mi piace divertirmi, ma musicalmente sì, anche perché penso che la buona musica sia senza tempo, quindi non importa da quale periodo proviene. Sono un po’ un misto: introversa e anche estroversa, amo stare con le persone, ma anche da sola».
Come è stato lavorare con sua mamma?
«Abbiamo iniziato a lavorare seriamente insieme durante la pandemia, avevo allestito un piccolo studio nel mio appartamento e vivevamo, come tutti, dentro a una bolla. Il mondo si stava chiudendo e noi ci siamo dette: andiamo avanti, facciamo musica. E ci ha fatto davvero bene. Insieme a noi c’era anche il mio ragazzo (Braeden Wright, ndr), anche lui è produttore delle mie canzoni. Abbiamo lavorato come una piccola azienda a conduzione familiare, avevamo la musica a cui tornare e a darci uno scopo in un momento difficile. Il consiglio che mi ha sempre dato mia madre è solo quello di amare, rimanere fedele a me stessa, onorare il processo creativo, fare sempre qualcosa in cui mi sento autenticamente io e che mi faccia stare bene. Mi ha sempre detto: lavora affinché quello che fai non sia solo buono, ma grandioso».
Di recente c’è stata molto discussione sui «nepo babies» ovvero i figli dei famosi che ripercorrono le orme dei genitori.
«Penso che il motivo per cui le persone sono risentite con i “nepo babies” è che pensano che abbiano preso la scorciatoia, che abbiano evitato di lavorare duro, di aver falsato il processo. Se però io penso al mio percorso di artista, io lo vedo pieno di difficoltà e di alti e bassi, e so che ci ho messo tanto lavoro e sudore e sangue e lacrime. In nessun modo mi sono adagiata sugli allori o mi sono seduta lasciando che le cose succedessero solo grazie al mio cognome. Ho lavorato molto duramente. Poi, certo, sono consapevole che l’ambiente in cui sono cresciuta mi ha messo a contatto con persone che forse non avrei potuto incontrare se non fossi stata figlia di Annie Lennox. Però penso che se non sei minimamente brava, non c’è nessuno che ti prende sul serio solo in virtù del tuo cognome, soprattutto in un ambiente come quello della musica dove alla fine quello che conta è ciò che piace al pubblico e la qualità della tua proposta artistica. Più che il mio nome, io voglio che sia la mia musica a parlare per me». —