La Stampa, 9 aprile 2023
Esecuzioni, gambizzazioni, sequestri, torture, pestaggi. Cronaca della capitale
A Roma tutti vedono cosa succede, ma nessuno riesce a capirne il perché: esecuzioni per strada, gambizzazioni, sequestri, torture, pestaggi e ferimenti a colpi di pistola fanno sembrare da sei mesi le strade della città come quelle messicane di Tijuana, in un crescendo di brutalità difficile da decifrare. Nella città aperta a tutte le mafie, di regola non si spara, perché la torta è grande tanto quanto gli appetiti criminali e perché la guerra danneggia gli affari, attira le forze dell’ordine e accende le telecamere. Da novembre, invece, la cronaca di Roma è un bollettino di guerra, un romanzo criminale violentissimo che riporta agli anni feroci della banda della Magliana: in cinque mesi, quindici omicidi sono stati eseguiti e sette tentati (quelli di cui si è a conoscenza); non tutti ovviamente sono maturati in contesti malavitosi, ma molti sì e destano particolare allarme sociale. Alcuni sono un regolamento di conti, nell’ambito del traffico di droga, altri hanno un peso diverso e rappresentano una spia allarmante di un riassetto criminale in corso. Nello scorso marzo hanno sparato a quattro persone, a tre in una sola settimana. Molti omicidi, tra cui gli ultimi due, quelli di Luigi Finizio e di Andrea Fiore, sono avvenuti nel quadrante est di Roma, regno dei Senese, i napoletani che arrivati a Roma negli anni ’80 hanno costruito un impero nel narcotraffico e allevato batterie di narcos e picchiatori, al cui vertice c’è da sempre Michele ‘o pazzo, che dal carcere non ha certo perso peso e autorevolezza, né la possibilità di comunicare con l’esterno, come dimostrano i pizzini trovati nelle sue scarpe. Il 13 marzo, Luigi Finizio, imparentato con i Senese attraverso il fratello, è stato freddato in dieci secondi davanti ad un distributore di benzina al Quadraro, da due uomini, ancora sconosciuti, a bordo di uno scooter. Sul luogo del delitto, era apparso un amico della vittima, Andrea Fiore, un carrozziere, anche lui con precedenti. Si era fatto notare mentre parlava con gli investigatori. Una mossa imprudente, tanto che dopo appena quindici giorni e a poche centinaia di metri da lì, il piombo è toccato a lui: Danilo Rondoni e Daniele Viti si sono presentati a casa sua e il secondo gli ha sparato, mentre Fiore tentava di difendersi con un’accetta. Per la Squadra Mobile stavolta non è stato complicato rintracciare i responsabili, visto che prima di ucciderlo, i due hanno sequestrato e picchiato un vicino di casa di Fiore per ottenere ulteriori informazioni, ma prima di rilasciarlo Viti ha commesso un errore tanto fatale quanto surreale: gli ha restituito il portafogli sbagliato, cioè il suo, con i suoi documenti all’interno. Interrogato dagli inquirenti, Viti confessa di aver eseguito l’ordine superiore di un capo. Sì, ma di chi? Chi può essere il mandante di un duplice omicidio, proprio nel feudo militare di un pezzo da novanta come Michele ‘o pazzo? Difficile ipotizzare infatti che nel territorio dei Senese si assumano iniziative di rilievo, come qualsiasi fatto di sangue, senza il loro benestare, a meno di non volerli sfidare di proposito. Lo stesso ragionamento potrebbe valere per la duplice gambizzazione di due giovani e ambiziosi (troppo?) spacciatori, Alex Corelli e Simone Daranghi, avvenuta poche settimane prima, tra Morena e la Romanina. Zona controllata dai Senese e dai Casamonica, che comunque rispondono ai primi. Daranghi è uno spacciatore di Alatri, mentre Corelli è figlio d’arte, di Roberto detto “il Capitano”, trafficante legato ai Senese. Hanno tentato di allargarsi in piazze altrui? Hanno provato a fare i furbi? Serviva una lezione per ricordare a loro e a chiunque si facesse venire in mente idee diverse, chi comanda? Fatto sta che Corelli, forse per evitare che il referto finisse in procura, ha tentato di evitare il pronto soccorso, facendosi inizialmente soccorrere in un locale vicino.
In questa inedita gomorra romana, non si spara soltanto, ma si sequestra e si tortura, con un sovraccarico di ferocia mai vista. Francesco Vitale, un pr barese noto come Ciccio Barbuto, nella vita faceva il narcos, prima di contrarre mezzo milione di debito con le persone sbagliate. Era venuto a Roma il 22 febbraio scorso per incontrare i suoi creditori, dopo aver lasciato la sua fidanzata in albergo, ma era una trappola. È stato torturato per ore in un appartamento della Magliana, fino a quando sfinito ha preferito lanciarsi dalla finestra, ma dal quinto piano non si salva nessuno. Ci ha sperato, ci ha provato, come dimostrano le impronte delle mani sporche di sangue impresse nel muro esterno del palazzo, ma non poteva farcela. Poche ore prima gli era stata concessa, per mettergli pressione, un’ultima telefonata alla compagna, giusto il tempo di dire addio a lei e al bambino. I Carabinieri del nucleo investigativo di Roma hanno arrestato per sequestro di persona, con l’aggravante della morte della vittima, il buttafuori Sergio Placidi, detto Sergione e Daniele Fabrizi, alias Saccottino, che probabilmente avevano ricevuto l’appalto per la riscossione del credito da un altro re della criminalità romana, Elvis Demce, l’albanese che si proclamava Dio, tanto feroce da cavare a mani nude l’occhio di un suo nemico, tanto sicuro del suo ruolo da affermare: «Quando parlo io è cassazione, è morte». I carabinieri lo hanno arrestato l’anno scorso, mentre stava per scoppiare una guerra sanguinaria con il suo rivale albanese Ermal Arapaj, “l’Ufo” che aveva approfittato della carcerazione del capo per allargarsi. Elvis Demce, cresciuto sotto l’ala protettrice di Fabrizio Piscitelli, Diabolik per tutti, era il suo braccio armato, insieme alla batteria degli albanesi di Ponte Milvio, utilizzata per risolvere i lavori più sporchi; a quanto ci risulta, dopo l’omicidio del Diablo, Demce si sarebbe allontanato dal gruppo originario di appartenenza, quello di Arben Zogu, il referente degli albanesi a Roma, per avvicinarsi alla cerchia dei Senese, all’interno della quale potrebbe essere maturato proprio l’omicidio del suo amico Piscitelli. Del resto, nel mondo criminale, si sa, le inimicizie come le amicizie hanno un prezzo.
A spiegare bene il grado di efferatezza raggiunto a Roma, è la spirale di violenza innescata dal furto di 107 kg di cocaina a casa di un pusher, Gualtiero Giombini (morto in circostanze ancora tutte da chiarire), che doveva custodirla per conto di Elias Mancinelli, di certo non uno spacciatore qualsiasi, a giudicare dal quantitativo di droga in suo possesso e dal peso criminale dei suoi referenti. Circostanza non valutata bene inizialmente dal carabiniere infedele Rosario Morabito e dal basista Cristian Isopo che insieme a due donne rom hanno organizzato il furto della cocaina. La reazione di Mancinelli non si fa attendere, come racconta Isopo ai pm Erminio Amelio e Giovanni Musarò che coordinano le indagini, svolte dai Carabinieri di via In Selci; Elias, scoperto senza troppa fatica chi ha compiuto il furto, si presenta da Isopo e gli dice: «Sai perché sono qui?», poi lo incappuccia e lo fa salire a bordo di una macchina, per condurlo in una villetta: «Mi ha sequestrato dalle quattro del pomeriggio alle quattro di notte», racconta Isopo, «dopo 12 ore mi hanno rilasciato pesto come l’uva, con gli aghetti infilati dentro alle unghie… avevo le mani gonfie che non riuscivo a muoverle…mi menavano in testa, botte sulle costole, sul torace, sul collo…». Per terrorizzarlo, gli mostrano Giombini (a casa del quale era stata rubata la droga), torturato in un’altra stanza con la fiamma ossidrica e lasciato al gelo per giorni. Isopo racconta che il pusher era «in condizioni irriconoscibili perché era stato ammazzato di botte, indossava solo le mutande, la sua faccia era tumefatta, aveva sangue e lividi in tutto il corpo, una sorta di mostro». Non soddisfatto delle torture, Mancinelli per indurre Isopo a recuperare in fretta il carico di droga che si era smezzato con le rom, lo porta con l’aiuto di altre otto persone in zona Laurentina e lo sospende penzoloni da un ponte con la ferrovia sotto, dicendogli che se non avesse riportato la droga o sarebbe andato giù o lo avrebbero impiccato. Nel frattempo Elias risale all’identità delle due donne che hanno partecipato al furto e le sequestra, poi ne rilascia una (quella sbagliata) e ne trattiene un’altra, fino a quando non è pronto lo scambio di soldi e di droga, che avviene nel centro commerciale Maximo, dove ad aspettarli però c’è la Polizia.
I sequestri di mala stanno diventando un’abitudine a Roma, a Natale era stato sequestrato a Ponte Milvio davanti ad un noto e molto frequentato ristorante giapponese, Danilo Valeri, ventenne figlio di Maurizio, detto il “sorcio”, pusher di San Basilio, gambizzato qualche mese prima. Valeri è stato rilasciato 24 ore dopo e non ha fornito alcuna informazione agli inquirenti sul commando che lo ha prelevato. Se si arriva a compiere un atto così violento e controproducente, come il sequestro di un ragazzo per un debito di 12 mila euro, cifra irrisoria nel mondo della droga, significa che in certi contesti il livello dello scontro è del tutto fuori controllo.
Un discorso a sé merita un’altra parte della suburra romana, che non è periferia ma impero. Ostia è da sempre terra di conquista criminale, per gli interessi economici e strategici che concentra: chilometri di litorale con stabilimenti e ristoranti da gestire e in cui riciclare, ma soprattutto due porti vicini, quello di Fiumicino e quello di Civitavecchia dove transitano i carichi di stupefacente dal Sudamerica e dalla Spagna. Negli anni, sul lungomare dei romani -tra le tante piazze di spaccio, il racket delle case popolari e le estorsioni- si sono consumate vere e proprie guerre di mafia: prima i Triassi, poi i Fasciani, poi gli Spada contro i Fasciani, poi gli Spada contro il gruppo di Marco Esposito, detto Barboncino, fino a quando il quadro è saltato: Barboncino è morto, i Fasciani hanno subito inchieste pesantissime, così come gli Spada, sebbene una delle figure più simboliche, Roberto Spada- assurto nel 2017 alle cronache nazionali per la testata al collega Daniele Piervincenzi e condannato per associazione mafiosa – è da poco tornato in libertà, accolto sul litorale da fuochi d’artificio e festeggiato come un capo, nell’attesa (ma senza fretta) che vengano determinati gli altri anni che deve ancora scontare in carcere. Il suo rientro nel contesto di Ostia desta ovviamente preoccupazione, per le fibrillazioni che ne potrebbero nascere, con i nemici di sempre, quelli rimasti e con le forze emergenti. Tra i nuovi signori della droga, per esempio, ci sono i cileni, sempre più forti, sempre più autonomi. Qualcosa intanto di poco chiaro sta già accadendo sul litorale, come dimostrano l’omicidio di Fabrizio Vallo, avvenuto il 3 febbraio scorso, e quello -dopo pochi giorni- tentato, ma fallito di Antonio Da Ponte. Vallo, rapinatore noto alle forze dell’ordine, è stato crivellato con cinque colpi di pistola davanti all’androne di casa sua, in via del Sommergibile. A casa del sospettato di origini siciliane, la Polizia ha trovato sei pistole. Più significativo, per la diversa caratura criminale e per la provenienza della vittima da un contesto di camorra, è il tentato omicidio di Antonio Da Ponte, condannato anni fa per omicidio e da poco uscito dal carcere. È stato colpito all’addome, sua moglie al gluteo e suo figlio neonato, miracolosamente illeso. In mezzo a bar e ristoranti aperti, anche se, come sempre, nessuno ha visto. Non si esclude, ma è solo un’ipotesi, che questa vicenda possa avere un possibile legame con gli omicidi del Quadraro.
Mentre il governo tarda a nominare il nuovo prefetto di Roma e il sindaco Gualtieri è preoccupato, ma tutto sommato ritiene la Capitale una città non violenta, la scia di sangue si fa sempre più lunga, segno che qualcosa evidentemente è cambiato negli equilibri della malavita e che si è rotto quel patto mafioso di non belligeranza tra clan e narcos che solo i capi possono garantire, molti dei quali sono ormai indeboliti dalle inchieste o in carcere o morti, come Diabolik, freddato su una panchina in un parco pubblico nel 2019. Quello di Fabrizio Piscitelli è stato un omicidio eccellente, di matrice mafiosa come disse da subito l’allora capo della Procura di Roma Michele Prestipino. Eppure ad oggi, dopo quattro anni, conosciamo il nome dell’esecutore materiale, l’argentino Raul Esteban Calderon, ma non quello dei mandanti, la cui posizione è stata archiviata per insufficienza di prove. Alcuni dei presunti colpevoli sono in carcere per altri reati, altri potrebbero uscire a breve, altri invece sono liberi. Diabolik e il suo socio Fabrizio Fabietti hanno inondato Roma di cocaina, sfamavano le principali piazze di spaccio di Roma, da Torbella Monaca a Primavalle, da San Basilio ad Acilia, dalla Romanina ai Castelli, passando, appunto, per Ostia, come ha svelato un’importantissima operazione del Gico della Guardia di Finanza, dal titolo evocativo, “Grande Raccordo Criminale”. Il Diablo l’hanno ammazzato, Fabietti e la sua banda sono in carcere, come tanti altri boss della città. Eppure la cocaina continua a scorrere a fiumi tra le strade della città, in tutti i quartieri, perché i vuoti nella malavita vanno riempiti rapidamente ed è quello che sta succedendo a Roma e che spiega tanto fermento e tanta violenza: se mancano le figure di garanzia per fare la pace, i ranghi inferiori si fanno la guerra e si armano. Mai girate così tante armi a Roma. A Pietralata la Squadra Mobile ha rinvenuto un arsenale di armi custodito da una donna, i ferri con la matricola abrasa erano quasi tutti carichi e pronti all’uso. In una casa popolare di Ostia, i Carabinieri hanno trovato un’altra santabarbara, pistole e migliaia di proiettili e arrestato un pregiudicato che produceva artigianalmente i silenziatori per le pistole. Quando manca una regia, quando non c’è chi ha l’autorevolezza e il curriculum criminale per decidere se il semaforo è rosso o verde, allora si spara, si gambizza, si tortura, si sequestra. Ma Roma, è bene che le nostre istituzioni lo ripetano sempre e ostinatamente: «Non è una città violenta e neppure mafiosa», piuttosto è la capitale del volemose bene. —