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 2023  aprile 07 Venerdì calendario

Su "Il cuore è un guazzabuglio. Vita e capolavoro del rivoluzionario Manzoni" di Eleonora Mazzoni (Einaudi)



Nel centocinquantesimo anniversario della morte di Manzoni bisognerebbe sottrarlo a ogni polverosa monumentalità e anche a quell’ombra di bigottismo in cui la cultura laica spesso lo relega. Penso a un famoso saggio di Moravia, peraltro ricco di spunti critici, che tacciava I promessi sposi di essere opera di propaganda cattolica (allora ci pensò Gadda a difenderlo). Ben vengano dunque libri come Il cuore è un guazzabuglio (Einaudi) di Eleonora Mazzoni, che ci racconta lo scrittore e l’uomo Manzoni, con piglio lieve e acume interpretativo.


Si comincia contrapponendo un vivace ritratto del cugino Carlo Dossi _ Manzoni moralista ex libertino e appassionato alla egalité («nacque rivoluzionario»), dotato di autoironia, inesauribile conversatore, preferibilmente in dialetto, amante del bon mot — a quella affliggente immagine (un quadro di Francesco Hayez), di «un uomo perennemente di mezz’età, dallo sguardo grave e vagamente assente che lo ha reso inviso a una marea di studenti». Sui banchi di scuola ciò che di Manzoni ci respingeva era il moderatismo. Eppure basta anche un solo insegnante, come è capitato all’autrice, per ribaltare questo cliché.


Segue poi una notazione decisamente insolita: nei Promessi sposi «i legami elettivi si rivelano più procreativi dei legami di sangue». Nella scena del lazzaretto troviamo capre che allattano bambini e madri che danno da mangiare a figli non propri, mentre la stessa Lucia incontra una donna che le fa da madre. Nel paese del familismo — morale e amorale — Manzoni ci offre l’immagine di un affratellamento ben oltre i confini della famiglia: unica alternativa al disumano diventa «la benevolenza; tanto quella che si sente, quanto quella che si trova negli altri».


Il momento più alto del libro di Eleonora Mazzoni è quando ci invita a leggere la apparente rassegnazione di Lucia — che pure non parla quasi mai, che abbassa lo sguardo, etc. — come una forma di «accoglienza», come un «saper ospitare l’incomprensibile dell’esistenza». Per niente passiva di fronte ai prepotenti, radicata nelle sue convinzioni come un’eroina di Jane Austen, sa anche che non possiamo governare cose e persone. La sua è una cognizione del limite.


Qui ci imbattiamo nel più colossale equivoco a proposito di Manzoni, la Provvidenza, la quale non è affatto un deus ex machina che tutto appiana: serve solo a ricordarci che il mondo non è in nostro potere. Possiamo agirvi secondo coscienza, ma indifferenti all’esito del nostro agire. La Storia è per Manzoni «un carcame di eventi» retto da un disegno misterioso: «Un caos di possibili, un’accozzaglia inafferrabile di grazia e male scritto sull’acqua… un enigma insolubile».


A questo enigma, in cui «non si può che far torto o patirlo», Manzoni contrappone la storia segreta delle anime. Non siamo lontani dalla visione di Guerra e pace, ma a proposito di Tolstoj andrebbe fatta una considerazione, stimolata dal libro. Gramsci attaccò il «paternalismo popolaresco e gesuitico» di Manzoni (in realtà impastato di illuminismo e giansenismo, un cattolicesimo più vicino all’intransigenza luterana) contrapponendogli la radicalità «democratica» dello scrittore russo. Però se Tolstoj fece il beau geste di offrire l’emancipazione ai suoi contadini (da loro respinta), Manzoni da operoso lombardo diventa agricoltore, studia le piante e la semina, mette a coltura i suoi novanta ettari, creando lavoro e smerciando i prodotti. E soprattutto: «[il profitto] non lo intende mai solo per sé: essendo sociale, collettivo, finalizzato al progresso generale, include il benessere dei suoi contadini».


Di fronte alle tragedie inesplicabili della Storia, e a quelle della sua personale biografia («una continua catena di morti e malattie»), Manzoni non può che opporre la scrittura, e tutta la laboriosa gestazione dei Promessi sposi, che nell’ottobre del 1840 cominciano a uscire in fascicoli settimanali: «Mentre il mondo crolla, fuori e dentro di sé, Manzoni compone e lima. Lima e compone».
È nelle pagine conclusive che il ritratto dell’autrice trova una sintesi felice, lì dove ci presenta un Manzoni ottantaduenne, prossimo a morire: «Vaneggia, parla con ombre e fantasmi… e mette via per sempre i tormenti e l’amore, per sempre i figli, i fogli e le parole».


In questa pace finale si acquietano per un attimo le vitalissime contraddizioni di un uomo tormentato e generoso, afflitto da vertigini, con una fede pascalianamente sospesa su un azzardo, che diffidava sia dei potenti, della cultura libresca, del «parlare ambiguo» dei politici e del popolo ridotto a «turba» e «marmaglia». Convinto che il cuore resta un «guazzabuglio»: perciò è sconsigliabile andare dove ci porta.