Corriere della Sera, 9 aprile 2023
L’avvocato Salvatore Trifirò che a 91 ho vinto la medaglia d’oro sui 60 metri
Avvocato, il suo ultimo successo non è stato in Tribunale.
«In pista, ho vinto la medaglia d’oro sui 60 metri. È la seconda volta che la prendo. La prima avevo 4 anni, andavo a scuola dai Salesiani, stupii tutti ripetendo a memoria il libro della prima elementare. Adesso invece sono diventato campione italiano master, nella mia categoria».
Categoria 90 anni, per la precisione Salvatore Trifirò ne ha compiuti 91 a febbraio. È uno dei più importanti legali italiani, probabilmente il miglior giuslavorista che abbiamo mai avuto. Lo incontriamo nel suo studio proprio dietro il Palazzo di Giustizia di Milano. Ai piedi scarpe da corsa, alle pareti libri, codici e un’opera che Emilio Isgrò gli ha dedicato. Ci sono anche due monopattini e una palla da ginnastica, sulla scrivania due grandi velieri in legno e le foto di famiglia, la moglie Paola, i tre nipoti e un ritratto di Cesare Grassetti, il suo maestro.
Lei è siciliano.
«Sono nato a Barcellona Pozzo di Gotto. Da una famiglia per metà nobile da parte di mia madre, mio nonno era un avvocato antifascista, e per metà contadina, i genitori di mio padre erano emigrati e tornati dall’Argentina. Sono cresciuto facendo la vita dei campi, si raccoglieva la frutta e si andava al palmento a pigiare l’uva».
Un’infanzia felice.
«Da bambino studiavo sotto un grande albero di limoni che era una cosa stupenda. Con i miei amici andavo nella piana di Milazzo, piena di gelsomini profumatissimi. Dopo la guerra c’erano molti residuati bellici, raccoglievamo le bombe a mano Balilla, di colore rosso, e le tiravamo a mare per prendere i pesci. A pensarci adesso eravamo davvero ingenui e incoscienti».
Gli studi in Giurisprudenza, poi lascia la Sicilia.
«Mi sono laureato a Palermo nel marzo 1955, il primo aprile ero a Milano. Ho cominciato a lavorare in un piccolo studio, riuscivo a guadagnare a malapena per vivere, non volevo dipendere dai miei. Avevo preso una stanza in una pensione con un altro ragazzo, potevamo fare il bagno una volta al mese pagando un extra, per risparmiare non prendevo il tram. Sono stato pure all’Ente comunale assistenza per mangiare».
La svolta è l’incontro con il professor Grassetti.
«Il più grande avvocato del Novecento. Faccio gli esami per procuratore legale, su tremila sono il primo, ero preparatissimo. Il professor Grassetti mi chiama e mi fa fare una prova, mi affida una causa in appello per concorrenza sleale. Mai fatte, per giorni scrivo bozze e le butto, finché mi viene l’idea di prendere tutti gli atti di primo grado e di copiarli. Quando Grassetti li vede e li confronta, capisco che se n’è accorto e penso che per me è finita. E invece mi dice: “Bravo Trifirò. Ha capito che in quegli atti non c’era nulla da cambiare, perché li ho fatti io”. Mi chiese quanto prendevo, gli risposi 5.000 lire al mese. E lui: “Se gliene do 100.000 per lei va bene?”».
È l’inizio di un carriera straordinaria.
«Siamo stati insieme per vent’anni. Si faceva tutto, famiglia, successioni, fallimentare, commerciale».
E poi il diritto del lavoro?
«Nel 1970 entra in vigore lo Statuto dei lavoratori, il processo da scritto diventa orale. Bisognava portare avanti le cause, ma nessuno dei miei colleghi si faceva avanti. Anche perché erano tempi duri, l’autunno caldo, le agitazioni in fabbrica, i movimenti, le Brigate rosse».
Così diventa l’avvocato delle grandi aziende.
«Non solo le difendevo ma contrattaccavo, chiedevo i danni alle rappresentanze sindacali per tutte le agitazioni illegittime. Per loro era come una forma d’intimidazione».
Le bruciarono l’auto.
«A me e al capo del personale della Sit Siemens. Io difendevo l’azienda che aveva licenziato Mario Moretti. Il giorno dopo trovai l’auto incendiata, ma non feci denuncia».
Aveva paura?
«Mi ero organizzato con due guardie del corpo che stavano dietro la porta d’ingresso del mio studio, sotto la scrivania avevo un interruttore che mi collegava direttamente alla Digos. Mi ero fatto fare dall’Alfa Romeo un’auto blindata, prima di uscire di casa guardavo sempre attraverso le persiane per vedere se si era appostato qualcuno. Ricevevo minacce telefoniche di notte, una mattina tutta Porta Vittoria venne tappezzata di manifesti con il mio volto».
È scampato a due attentati.
«Una sera, nel locale che aveva aperto mia moglie a Brera, il Momus, il barista mi dice che c’è una coppia che mi vuole parlare. Io mi mangio la foglia e scappo attraverso la cucina. Anni dopo mi chiamò la Procura generale per dirmi che quei due giovani si erano pentiti, che avevano raccontato di quel tentativo per colpirmi. E anche di un altro, una ventina di giorni dopo in strada, ma passò una guardia giurata e loro si fermarono. L’ho scampata per miracolo».
Tenne a battesimo lo Statuto dei lavoratori.
«Prima causa sull’articolo 28 contro Cgil, Cisl e Uil. Persa. Prima causa sull’articolo 18 contro il reintegro di un dipendente della Sit Siemens. Persa. Però nella vicenda di un operaio della Metallurgica italiana licenziato perché vicino ai terroristi vinsi io contro un collegio in cui c’era pure Gino Giugni, il padre dello Statuto. Alla fine mi fece i complimenti».
Ha difeso Enzo Biagi contro la Rai dopo il famoso «editto bulgaro» di Berlusconi?
Clienti eccellenti
Ho difeso Enzo Biagi contro la Rai, ottenemmo una bella transazione
Conosco Emilio Isgrò da quando eravamo ragazzi: l’ho assistito nel plagio
subito da Roger Waters
«Non siamo arrivati alla causa, ma abbiamo ottenuto una bella transazione. Avevamo tutti i numeri, se andavamo avanti li stendevamo. Biagi rimase molto contento, con lui ho avuto un bellissimo rapporto».
Lei è stato anche l’avvocato dei russi della Nafta Moskva che nel 2004 volevano acquistare la Roma. Perché alla fine tutto fallì?
«Non l’ho ancora capito. Superammo tutti gli ostacoli, il contratto era pronto ma a un certo punto arrivò da Mosca la telefonata che fermava tutto. La cosa più incredibile è che dopo, quando gli chiesi la parcella, mi risposero: “Lei chi è? Non le abbiamo dato nessun mandato scritto”. Alla fine ho dovuto fargli causa, ma non si riusciva a notificargli gli atti perché tutto si bloccava in ambasciata. I russi sono persone incredibili, e adesso ne abbiamo qualche esempio».
La causa che le ha dato più soddisfazione?
«Sicuramente quella di Bernardo Caprotti, il patron di Esselunga, contro i figli. L’ho condotta in arbitrato, in Tribunale e in Appello, abbiamo stravinto ovunque. Era una vicenda delicata, ho deciso la strategia giusta e ha funzionato».
E la storia del plagio subìto da Emilio Isgrò?
«Con Emilio ci conosciamo da quando eravamo ragazzi. Sua madre gli diceva: “Devi diventare bravo come Salvatorino”. Lui ancora mi chiama così. Ci siamo ritrovati e l’ho assistito contro Roger Waters (ex Pink Floyd, ndr) che aveva utilizzato una sua opera in una copertina. Aveva una schiera di avvocati, ho ottenuto due provvedimenti e gli ho fatto sequestrare i dischi».
È vero o è una leggenda che nelle trattative più lunghe si toglie le scarpe?
«È successo, anche più di una volta. Come nel caso della Roma».
Sua moglie Paola, dove l’ha conosciuta?
«Faceva il praticantato nello studio del professor Grassetti. Era bellissima, ma soprattutto una donna di una grande intelligenza e cultura. Era la cugina di Michelangelo Antonioni, amica di Arnaldo Pomodoro e dei suoi fratelli. Ama il cinema, l’arte, la letteratura. E poi è una cuoca raffinatissima».
Il suo piatto preferito?
«Forse le mezzemaniche al ragù napoletano, quello che cuoce sei ore. E fa degli arancini buonissimi».
Sua moglie è anche una collezionista di saliere e pepiere.
«Ne ha cinquemila. La prima l’abbiamo comprata in Inghilterra: una coppia di innamorati in spider, come lo eravamo noi. Il sale e il pepe rinnovano l’amore».
Ballerino accanito.
«Sì, ma il ballo lo invento ogni volta, quando sento la musica mi muovo senza seguire schemi particolari. Una volta in Costa Smeralda, a una serata in cui c’era anche l’Aga Khan, all’improvviso mi alzai e iniziai a danzare. In quei momenti sono capace di perdere il lume della ragione».
E poi la vela.
«Con mia moglie abbiamo cambiato 15 barche. L’ultima “Ribelle”, un 33 metri, ha vinto la Rolex Cup e tantissime altre regate».
La prima barca?
«Dopo la guerra i tedeschi avevano abbandonato motociclette e sidecar. Ne vidi uno e dissi ai miei amici che era un bella occasione. Smontammo il guscio, lo portammo da uno stagnino per riparare i buchi, lo trasportammo sulle spalle per 4 chilometri fino al mare e lo mettemmo in acqua. Paf... affondò miseramente. Il primo varo è stato un fallimento».
E la passione per la corsa?
«È recente. Valerio, il mio personal trainer, mi ha detto che ho una buona elasticità e che potevo provare i campionati italiani. Dopo l’oro sui 60 metri ho fatto i Mondiali in Polonia, ma c’era un giapponese di 92 anni che andava come una scheggia, sono arrivato quarto. A settembre ci sono gli Europei, forse tenterò i 100 metri».
Ha lo spirito di un ragazzino.
«Mi piace correre come quando si correva da bambini. Anche le barche non sono altro che giocattoli per grandi. Ho sempre avuto voglia di divertirmi e di giocare, però sempre con l’idea di primeggiare. Quando nostra nonna Maria ci chiedeva cosa volevamo fare da grandi, uno diceva il medico, l’altro l’ingegnere, io rispondevo: “Voglio fare il viceré”».
Non il re?
«Il viceré è un punto sotto, ha sempre la possibilità di andare avanti. La verità è che nella vita non bisogna fermarsi mai, bisogna avere sempre nuovi progetti. Se stai seduto è finita».