Domenicale, 9 aprile 2023
Pallavicini vinse sul terreno, Crocco sulla narrazione
Con Il brigante e il generale (Laterza), Carmine Pinto, che insegna all’Università di Salerno, bissa il successo riscosso con La guerra per il Mezzogiorno (Laterza, 2019), dove aveva messo in discussione le due letture del brigantaggio post-unitario fino ad allora prevalenti: quella della reazione sociale contadina contro le riforme promesse e poi negate, e quella della Vandea borbonica, interprete autentica di un’identità locale repressa con la violenza dai “piemontesi”.
Un’accurata disanima delle fonti, condotta per anni insieme con un gruppo di giovani studiosi, ha rovesciato queste letture schematiche, ciascuna a modo suo ideologica, rivelando la pluralità di conflitti confluiti nel macroscopico fenomeno del cosiddetto “brigantaggio” dopo il 1861: scontro fra notabilati territoriali (con la significativa esclusione delle città principali); scontro fra unitari e filo-borbonici, entrambi del sud; scontro fra una criminalità organizzata in grande, a scopo estorsivo, e un giovane Stato impegnato a garantire il controllo del territorio; scontro fra i deputati meridionali, invocanti il pugno di ferro per pacificare i loro collegi elettorali, e i fautori di un decentramento vagheggiato dal Risorgimento e subito accantonato a causa dell’emergenza.
Pinto descrive il precoce tramonto della rivolta guidata dagli emissari di Francesco II, a tutto vantaggio di personalità criminali, certo formalmente in lotta per il Borbone, il cui scopo è la costruzione di un sistema di potere capillare, ben radicato negli aspri paesaggi dall’Abruzzo alla Calabria, dotato della protezione di famiglie locali eminenti e di una rete efficiente di manutengoli. Lo strumento “militare” dei briganti sono le bande cavallo, mobili e micidiali; il reato praticato con maggior successo, su larga scala: il sequestro di persona. Ne Il brigante e il generale questi temi vengono incorporati nella biografia dei due protagonisti, le cui “vite parallele” sono narrate attraverso sequenze rapide, quasi cinematografiche: Carmine Crocco, il più famoso fra i capibanda del suo tempo, e il generale Emilio Pallavicini di Priola, un bersagliere piemontese con uno stato di servizio chilometrico, che si muove male fra salotti e politica e benissimo sul campo di battaglia. A lui, non volendo i suoi superiori esporsi, è non a caso affidata la delicatissima missione di bloccare Garibaldi ad Aspromonte, nel 1862; e Pallavicini ne esce tutto sommato non troppo male, contemperando la fedeltà allo Stato con l’ostentata compassione verso l’ormai vecchio leone ferito.
Egli, però, non è un ufficiale da operetta. Capisce che, sul terreno montuoso e accidentato fra Basilicata, Puglia, Campania e Molise i reparti regolari si muovono con difficoltà. I soldati patiscono il clima, si ammalano; gli effettivi vengono via via aumentati, perché gli operativi sono relativamente pochi. Da un lato, il generale cerca e trova l’appoggio degli unitari meridionali, per i quali la scelta dello Stato, a quel punto, non è più reversibile: si tratta di vita o di morte. Essi sono la maggioranza, spesso appartata e silenziosa. Dall’altro, soprattutto dopo che entra in vigore la legge Pica (1863), voluta tenacemente dalla deputazione del sud, il quadro legale cambia: sospensione dei diritti costituzionali in intere province, tribunali militari, esecuzione immediata delle sentenze. Rispetto ai caduti nel conflitto, i fucilati “ufficiali” non sono preponderanti: ma il segnale è fortissimo. Crocco, scrive Pinto, dà vita in Basilicata ad «un’organizzazione delittuosa di cui è impossibile riscontrare qualche cosa di simile nel Mezzogiorno risorgimentale: il più temerario, innovativo e atroce cartello della storia del brigantaggio» (p. 95).
Il volume ricostruisce con dovizia di particolari le sanguinose vicende di questo “cartello”. Pallavicini intuisce che il volume di fuoco concentrato non serve: rende i contingenti mobili e più ridotti, ma diffusi a protezione di paesi e contesti rurali. Deve logorare gli avversari, cercare pentiti: il tempo lavora per lui, non per loro. Perché? Lo spiega ancora Pinto: «La potente combinazione tra i valori risorgimentali (…) e le memorie consolidate nel corpo ufficiali piemontese, ed ora italiano, fu importante. Invece non esisteva alcun ideale o nozione ideologica sufficiente a trasformare le bande dei briganti in una guerriglia moderna, a parte i tradizionali richiami al re e alla religione, a cui gli stessi credevano ben poco» (p. 186).
Crocco riesce a sopravvivere, fuggendo nel 1864 nello Stato pontificio, mentre quasi tutti gli altri uomini del “cartello” finiscono uccisi o ai ceppi. Nel 1870 gli italiani, giunti a Roma, lo trovano e lo processano: in carcere, però, egli allestisce un’efficace e resistente narrazione delle sue avventure, che seppellisce la memoria di Emilio Pallavicini, l’autentico vincitore, non altrettanto abile a raccontare come si era davvero svolta e come si era conclusa la guerra per il Mezzogiorno. Finito il brigantaggio, nasce il suo mito.