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 2023  aprile 09 Domenica calendario

Mulas in 250 scatti

Che mistero è Ugo Mulas? Ogni volta che si visita una sua mostra ci si interroga sul suo occhio portentoso, sulla capacità di cogliere le cose importanti delle persone, dei luoghi, delle azioni, degli oggetti, della vita in generale, e in particolare, in modo perspicuo e unico. Come ha detto Alan Solomon, critico che l’accompagna negli studi degli artisti americani scoperti aVenezia alla Biennale del 1964, e visitati subito dopo a New York: Mulas non sa l’inglese e s’esprime male, eppure capisce tutto al volo, sa cosa fotografare e lo fa in un modo unico. Come gli riesce? La domanda torna imperiosa mentre si visita questa ampia e bellissima mostra veneziana alle Stanze della fotografia, intitolata L’operazione della fotografia (a cura di Denis Curti e Alberto Salvadori), composta di oltre 250 foto, con tanti scatti mai visti e un efficace catalogo (pagg. 376, MarsilioArte), una esposizione dove non c’è una sola fotografia davanti a cui non si sosti colpiti e affascinati come davanti a qualcosa che somiglia a una icona – forse anche il tempo, fattore decisivo nel suo lavoro, ha continuato a lavorare per lui e in lui a tanta distanza dalla sua scomparsa. La risposta è semplice e complessa insieme. In lui convivono sin dall’inizio elementi esistenziali, perché fotografare è la sua vita, con altri aspetti che riguardano invece domande che si fa sul senso delle cose, su di sé e su ciò che vede. Parlando con Carlo Arturo Quintavalle in un lungo e ampio dialogo del 1972-73, registrato nella sua casa milanese, parla insistentemente di «verità», di ricerca di verità. Ma cos’è la verità? Non una entità metafisica – niente in lui è mai al di là della fisica stessa, della consistenza tangibile del mondo – e neppure un’entità religiosa – è totalmente laico. Per lui la verità è un essere nel mondo, è sapere che la fotografia è la «liberazione per l’uomo dalla responsabilità di rappresentare se stessa». Detto altrimenti, le fotografie sono immagini che sanno «sganciarsi dalla mano inesatta o tendenziosa dell’operazione creativa», come scrive inLa fotografia (Einaudi) libro che Paolo Fossati ha raccolto anni fa, che resta fondamentale per conoscere il “mistero” Mulas. L’enigma è tutto qui: Ugo Mulas è stato un grande fotografo e insieme un acuto critico d’arte, un sottile teorico della fotografia e un uomo che ha vissuto intensamente il rapporto con il mondo visibile, con quella che Palomar, alter-ego di Italo Calvino – autore con cui Mulas ha molti punti in comune – chiama la «superficie delle cose». La verità risiede nell’apparenza delle cose, come constaterà ogni visitatore di questa mostra, perché il mondo è ciò che ci appare, così che noi tutti viviamo di apparenze: sono la verità stessa delle immagini. Si prenda l’immagine del profilo di Fausto Melotti accanto allo scatto d’una sua sculturina composta d’uno stelo e d’una barretta metallica arricciata: sono la medesima cosa, e dicono la verità: io sono così e l’arte è solo un gesto che appare. Siamo stati ad abituati a pensare che l’“apparenza” sia un inganno, perché bisogna capire ciò che c’è sotto:la verità come nascondimento e profondità. Mulas ci mostra invece che il mondo è ciò che noi vediamo. Si guardi tra le fotografie d’ispirazione neorealista esposte quella intitolata Dormitorio pubblico (1954), una delle sue prime foto quando da completo autodidatta prese in mano la macchina fotografica offertagli in prestito da Mario Dondero: una fila di letti ordinati e ordinari che la notte accolgono i barboni, i senza fissa dimora, un collegio ma anche un Lager; eppure non c’è niente di piùvero d’una foto così, che non urla, non strepita, non denuncia: fa vedere. Mulas inoltre ha capito che noi osserviamo il mondo con gli occhi degli altri, e il suo occhio acuto contiene tutti questi sguardi. Certo il fotografo è anche un artista, un essere singolare e unico, e lo è in tante immagini di questa esposizione perché nei suoi occhi ci sono quelli degli altri: non si guarda mai da soli e non è per sé stessi che si preme il pulsante della macchina fotografica: «Al fotografo il compito di individuare una sua realtà, alla macchina di registrarla nella sua totalità» (La fotografia). La mostra curata da Curti e Salvadori ha rovesciato il modo consueto di mostrare l’opera di Mulas. Comincia con le celebri Verifiche, la serie realizzata tra il 1968 e il 1972 composta di 14 immagini, in cui mette in campo le sue idee e i suoi dubbi sulla fotografia stessa: riflessioni, domande, considerazioni, affermazioni, dimostrazioni. Di solito vengono mostrate per ultime come il culmine del suo lavoro. Per quanto l’elemento metalinguistico e quello “concettuale” siano ben presenti nell’opera di Mulas – era il clima dell’epoca da Duchamp a Paolini – e in particolare nelle sue ricerche, le 14 “verifiche” sono pur sempre delle fotografie, come ha scritto anni fa Elio Grazioli in Ugo Mulas (Bruno Mondadori). Vanno guardate come tutte le altre immagini qui esposte. Potrà sembrare strano mettere sul medesimo piano le Verifiche, che ragionano su cosa sia possibile fare con la fotografia, e gli scatti in cui appare Duchamp, le foto di Lichtenstein e Warhol e quelle di moda e i nudi femminili con i gioielli, ma è così: sono tutte fotografie. Certo la principale qualità di Mulas – ecco un’altra faccia del suo enigma – è che fa foto piacevoli, interessanti e istruttive guardare senza abbandonare i tre cardini che Grazioli gli riconosce come precipui: scelta stilistica, scelta morale e scelta linguistica. Difficile trovare altri fotografi così, altri che abbiano preso così a cuore la fotografia quale superficie sensibile su cui fissare, grazie alla potenza della luce e all’inventività umana, la forma stessa del mondo, che non è mai identica in ogni punto e in ogni momento, qualcosa di continuamente mutevole che Mulas ha inseguito con ossessività inarrestabile, sia che si trattasse della periferia milanese o del ritratto dei Gucci, dell’attesa di Lucio Fontana o d’una tavolata per il giorno del ringraziamento a New York. Così riesce sempre a stupirci e a farci pensare. Tutto, ci dice, è degno d’essere guardato nel mondo aperto davanti a noi. Tutto dipende da come lo si fa. Ugo Mulas l’ha fatto, e il risultato è un dono continuo per noi.