la Repubblica, 9 aprile 2023
Il punto sulle Terre rare
Nella sfida per la leadership globale del XXI secolo c’è un fronte sul quale la Cina è in netto vantaggio sull’Occidente, spingendo Europa e Stati Uniti a serrare i ranghi per tentare di recuperare: le terre rare.
Poiché il duello sulla guida della crescita si gioca sull’economia digitale e sulla transizione verde sono infatti proprio le terre rare – a cominciare da bauxite, cobalto, litio e nichel – ad essere decisive per la realizzazione di una vasta gamma di prodotti hi-tech: dai computer alle batterie per i veicoli elettrici fino alle turbine eoliche. Il loro fabbisogno globale è in crescita travolgente: secondo alcune stime della Banca Mondiale e della Commissione europea potrebbe aumentare di sei volte entro il 2030 e sette volte entro il 2050. Ed è proprio questo scenario a far pendere l’equilibrio a favore di Pechino perché Unione Europea e Stati Uniti al momento importano, rispettivamente, il 98 e l’80 per cento di queste terre rare dalla Cina Popolare, che da un lato le possiede sul proprio territorio e dall’altro controlla alcuni dei loro maggiori centri minerari del Pianeta, grazie a massicci investimenti fatti negli ultimi anni, soprattutto in Congo nel Continente africano.
Ciò significa che uno scenario di competizione globale crescente fra Occidente e Cina – se non addirittura didecoupling economico, come alcuni analisti prevedono rischia di lasciare Europa e Stati Uniti senza le materie prime più cruciali per sostenere la svolta digitale del sistema industriale. Ovvero, queste terre rare hanno per le democrazie avanzate un’importanza che ricorda da vicino quella dal petrolio degli sceicchi negli anni Settanta-Ottanta e poiché nessuno, a Washington o Bruxelles, vuole trovarsi per la seconda volta sotto un simile ricatto, la scelta è di tentare di recuperare lo svantaggio in ogni modo possibile.
Da qui la discussione che si sta aprendo nei Paesi europei che possiedono questi minerali nel sottosuolo: Francia, Grecia, Groenlandia (Danimarca), Portogallo e Scandinavia del Nord, soprattutto in Svezia dove secondo recenti studi ve ne sarebbe il quantitativo maggiore nella regione di Kiruna. Si tratta però di un percorso difficile perché gli studi di preparazione in questo settore estrattivo richiedono lungo tempo e molte analisi sulla protezione dell’ambiente, fino al punto da dover prevedere fino a 8-12 anni di tempo.
Senza contare che nella Scandinavia del Nord svedese – proprio come in Norvegia e Finlandia – i giacimenti si trovano spesso in aree popolate da tribù native, che rivendicano con forza il diritto di essere consultate, ed anche risarcite dallo Stato. Si tratta insomma di tempi lunghi.
Da qui la decisione della Commissione europea di varareuna propria “strategia sulle terre rare” chiedendo anzitutto agli Stati membri che ne possiedono di investire sull’estrazione così come a tutti i partner di ottimizzare i consumi ed il recycling, con l’ulteriore obbligo di non importare più del 65 per cento del proprio fabbisogno da una singola nazione al fine di ridurre la dipendenza dalla Cina. Anche l’amministrazione Biden va verso un’accelerazione della produzione interna perché l’Inflation Reduction Act del 2022 prevede, nell’ambito della protezione del Made in Usa, che i minerali di importanza critica per la produzione delle vetture elettriche devono essere prodotti dagli Usa o da nazioni con cui gli Stati Uniti hanno siglato accordi sul libero commercio. È in questa cornice che la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, ed il presidente Usa, Joe Biden, hanno concordato l’inizio di negoziati per arrivare ad un accordo bilaterale sulle terre rare che potrebbe portare ad un’intesa bilaterale di libero commercio grazie al quale terre rare estratte o lavorate nell’Unione Europea diverrebbero anche made in Usa.
È una prospettiva importante perché, facendo leva sul comune bisogno di competere con la Cina sulle terre rare, schiude a Usa e Ue l’orizzonte di un accordo sul libero commercio più volte sfumato in passato, a cominciare dal vano tentativo del presidente Barack Obama di convincere l’Ue a sottoscrivere il Transatlantic Trade and Investment Partnership (Ttip) prima che il successore Donald Trump facesse una brusca marcia indietro. A suggerire che Biden possa ora tornare su questo sentiero è l’accordo da lui firmato a fine marzo con il Giappone proprio per “rafforzare la cooperazione sulle risorse minerarie più critiche”, prevedendo che terre rare “estratte o processate” da Tokyo possono ricevere incentivi Usa “per contrastare il dominio della Cina nel settore delle batterie per auto elettriche”.
Anche il Canada, che dispone di giacimenti di terre rare stimati in 15,1 milioni di tonnellate, ovvero i secondi al mondo dopo la Cina, guarda a Bruxelles in cerca di accordi per accelerare un processo di ricerca mineraria che – ai ritmi attuali – può durare un periodo compreso fra 5 e 25 anni.
Ci troviamo dunque in una fase che vede tutti i Paesi del G7 condividere la necessità di una strategia comune sulle terre rare, con Usa e Ue che potrebbero varare un’intesa ad hoc sul libero commercio al fine di riproporre l’estrema coesione fra i Paesi dell’Occidente come avvenuto nel caso dell’aggressione russa all’Ucraina – per evitare di diventare digitalmente dipendenti dalla Cina di Xi.