La Lettura, 7 aprile 2023
La narrativa per tutti i gusti
La narrativa è un’arte talmente flessibile da prestarsi agli usi più disparati. A dire il vero, non sempre commendevoli, quasi mai appropriati, anzi, troppo spesso velleitari e perniciosi. Ma d’altronde chi siamo noi per giudicare? La narrativa ha questo di buono: duttile, promiscua, alla mercé di tutti, è ben contenta di rispondere alle esigenze di chiunque le metta gli occhi addosso.
C’è chi vi cerca uno svago innocente e a buon mercato, chi un conforto allo squallore circostante, chi uno sprone, una speranza, un ammaestramento di vita. C’è chi la tratta come una scienza esatta, e chi ne ha fatto una tassonomia. Chi la usa per distinguersi, per elevarsi spiritualmente e chi ne apprezza l’ordito. Chi diffida della sua sostanziale inattendibilità, chi è sedotto dalla sua ambiguità morale, chi la brandisce come un testo sacro. Chi la usa per fuggire e chi per ritrovare sé stesso. Chi per giudicare e chi per sottrarsi al giudizio del prossimo. Il solo tratto che tiene assieme questa turba variegata di lettori entusiasti è la passione per l’avventura. Storie, personaggi, emozioni. Paesaggi urbani o rupestri. Ascese, faide, delitti. Pentimenti e vendette. L’azione inesorabile del tempo. Sono questi gli ingredienti che mandano in estasi il lettore di narrativa.
Il libro che avete in mano è stato scritto (a più riprese, a tentoni, senza un disegno preciso e unitario), più di mezzo secolo fa, da un uomo che in senso stretto non può essere definito un critico letterario ma che, come molti intellettuali della sua generazione, ha creduto che la narrativa potesse offrire un ineludibile sismografo morale.
Si chiamava Nicola Chiaromonte e per molto tempo, per la cosiddetta editoria generalista, è stato un’ombra, uno spettro, un desaparecido. E, forse anche per questo, un mito. Molti ne parlavano con ammirazione, altri con sospetto, pochi lo avevano letto. Di recente questo vuoto immane e ingiusto è stato colmato dall’edizione delle sue opere uscita per i «Meridiani» Mondadori. Voluta da Renata Colorni, è stata messa in piedi, curata e annotata da un grande italianista come Raffaele Manica. Grazie a lui e al rumore prodotto dalla sua bella impresa, Chiaromonte è tornato a esistere. Non più come ectoplasma ma come impulso intellettuale che alcuni di noi ritengono indispensabile.
Lucano di estrazione borghese, poliglotta, globetrotter per cause di forza maggiore (la persecuzione fascista lo spinge all’esilio prima nell’amata Parigi poi negli Stati Uniti), influenzato dal mondo classico, con il pallino per il teatro (di cui fu critico assiduo e intransigente), Chiaromonte ha interpretato il suo ruolo di scrittore nel modo più vasto e eclettico. Se un uomo si definisce attraverso le sue passioni, ha ragione Manica nel ricordarci che l’identità di Chiaromonte si esprime nel tentativo di trovare una «definizione dei dati di civiltà, di quegli elementi che costituiscono una civiltà, senza i quali una civiltà non è più se stessa». Niente come questo bizzarro ritratto rende merito all’understatement di Chiaromonte, alla sua discrezione mediterranea. È raro imbattersi in uno scrittore che abbia così poco a cuore la propria carriera. Lui, amante della cultura greca, ha nei confronti della scrittura un approccio socratico. Non scrive per affermarsi, o per mettersi in mostra, ma per capire. Se potesse capire senza scrivere (come Socrate), probabilmente si asterrebbe dal prendere la penna in mano. È più interessato al mondo che al posto che gli è dato di occuparvi. Ciò rende particolarmente complesso, per chi provi a farlo, delimitare i confini dei suoi interessi, gli spazi della sua indagine, il cuore della sua impresa. Chiaromonte appartiene a quella schiatta di eminenti studiosi delle idee – europei e nordamericani, alcuni di ispirazione laica e liberale, altri più sbilanciati a sinistra – che hanno lottato contro ogni forma di settarismo. I suoi confratelli hanno nomi altisonanti: Hannah Arendt, Isaiah Berlin, Albert Camus, Raymond Aron, Ignazio Silone, Andrea Caffi... Di alcuni è stato allievo, corrispondente, amico fraterno; di altri lettore, testimone, chiosatore devoto. Con essi condivide l’avversione per il dogmatismo novecentesco cui oppone la ricerca di una verità precaria e traballante, secondo la linea dettata da Montaigne. Non deve sorprendere, allora, che la forma in cui Chiaromonte eccelle sia il saggio, il genere ideato da Montaigne a propria immagine e somiglianza, allo scopo di contenere le sue speculazioni sghembe e tentennanti. Per definirlo lasciate che mi affidi ancora una volta alle parole di Manica:
«Campo di forze contrastanti, la forma saggio è anche dunque una forma dell’esistere: non di un’esistenza mancata, ma di un’esistenza il cui corso è andato imprevedibilmente a sfociare in un mare diverso da quello segnato dalle carte. Resoconto delle avventure del pensiero, il saggio non nasce dal sottrarsi, ma dall’inseguire una via inattesa, che forse è il manifestarsi di un orgoglio intellettuale in lotta col pudore e perciò contratto. Certe volte è un antivedere: se vogliamo, un’intuizione da veggente o da poeta riferita in una prosa la cui eleganza turbina e non appare, curata tanto nella sua portata da sembrare intagliata all’ingrosso, su un legno secolare, che altri si illuderà di cesellare».
Proprio perché Chiaromonte concepisce il saggio in questo modo – spazio di ricerca e libertà – non deve sorprendere la sua avversione nei confronti dei pensatori sediziosi. A cominciare da Sartre cui Chiaromonte, anno dopo anno, non risparmia bordate sempre più circostanziate. «In tutta confidenza» scrive a Camus nel 1946, «ho trovato L’Être et le Néant formidabile e deludente – e sono rimasto piuttosto amareggiato dall’Introduzione a Temps Modernes: come può un uomo tanto intelligente e accorto come Sartre ridursi a ripetere in un linguaggio più difficile (ma non raffinatissimo comunque) quelle storie di letteratura “borghese” e “proletaria” che non convincevano nessuno già nel 1930 – e che si potevano tollerare solo nella forma del paradosso metafisico che riusciva a dar loro Malraux, d’altronde non senza una certa fatica?». Basta questo stralcio di lettera per capire da quale parte della Storia Chiaromonte voglia collocarsi. Lui è un anticomunista libertario che giudica con riprovazione chi, come Sartre, è disposto a sacrificare la propria lucidità politica sull’altare di un’ideologia fanatica e frivola. Chiaromonte sente che il problema degli intellettuali alla Sartre è il fideismo violento e fazioso: «Generalmente parlando, tale ragione va cercata nel gran bisogno da cui è posseduto l’intellettuale moderno di una religione non religiosa, e cioè di un’ideologia efficace».
Se tale punto di vista oggi può sembrarci ovvio, all’epoca era talmente anti-convenzionale da mettere a repentaglio la reputazione di chi aveva il coraggio di esibirlo. Tenere il punto significava farsi carico dell’ostilità di gran parte dell’intellighenzia europea. Si pensi, tanto per offrire un esempio adeguato, al famoso epigramma che Pasolini scagliò contro Chiaromonte: «Non illuderti: la passione non ottiene mai perdono./ Non ti perdono neanch’io, che vivo di passione». Mettendo tra parentesi il tono oracolare, non è difficile capire l’obbiettivo polemico di Pasolini. Lui brandisce la passione (civile) come rimedio al pragmatismo laico di Chiaromonte, venato com’è di pessimismo e disincanto leopardiano. Non sta a noi stabilire chi avesse visto giusto, tra Pasolini e Chiaromonte. Ciò che più conta è l’incompatibilità di due scrittori animati da passioni (Pasolini ci perdonerà) così antitetiche.
Nel ventaglio di pubblicazioni di Chiaromonte, per lo più destinate a riviste o conferenze, Credere e non credere occupa un posto di rilievo, se non addirittura centrale. Come accennato, si tratta di un’opera di cui è davvero difficile ricostruire la genesi. Vi basti sapere che si tratta di un libro che ha dato parecchio filo da torcere all’autore, perseguitandolo per molti anni. Ma al di là della sua lenta e accidentata compilazione, a impensierire è la difficoltà di identificare il suo nucleo. A cominciare dal titolo ambiguo e interlocutorio che sembra chiamare il lettore a una difficile scelta di campo. Anche se cautamente legati da una congiunzione copulativa, e non disgiuntiva, il «credere» e il «non credere» evocati da Chiaromonte ci mettono di fronte a un dilemma. Lui ha buon gioco nel conferire al termine «credente» o «fedele» un’accezione più larga. Dalla sua prospettiva agnostica, non gli interessa distinguere chi abbraccia una confessione da chi si è votato a un’ideologia. La fede si esprime nell’esibizione di una qualche certezza morale. Nel saggio finale che dà il titolo al volume, si chiede: «A che cosa crediamo, se tuttavia crediamo in qualche cosa? E che cosa significa credere?». Tale interrogativo ne genera subito un altro: è possibile credere senza il rischio di apparire ottusi? Ecco il paradosso del credente. La fede è per natura esclusiva. Credere significa avversare chiunque non creda, ma anche combattere chi coltiva credenze alternative. La fede offre al credente una dimora, uno stuolo di confratelli, un avvenire ricco di promesse rassicuranti. Per questo è così difficile sbarazzarsene e vivere alla giornata. «La nostra non è un’epoca di fede» scrive Chiaromonte, «ma neppure d’incredulità. È un’epoca di malafede, cioè di credenze mantenute a forza, in opposizione ad altre e, soprattutto, in mancanza di altre genuine». Ed è proprio questo il punto. La malafede è un esercizio consolatorio, intellettualmente disonesto e moralmente inaccettabile. «Questo mondo è quello che è» rincara la dose Chiaromonte, «dobbiamo viverci come meglio possiamo. Ma, quanto a pensarlo, non possiamo pensarlo che a partire dal dubbio e dall’incredulità».
Tenuto conto di tale scetticismo, non sarà difficile capire perché Chiaromonte si affidi ad alcuni grandi romanzieri otto-novecenteschi. Il romanzo è il genere letterario che più di qualsiasi altro ha dato voce al dubbio, all’incoerenza, all’interlocuzione. Non scriviamo romanzi per affermare verità sempiterne ma per porre questioni aperte e annose che perlopiù riguardano le persone. Particolarmente efficace è la definizione di romanzo proposta da G. K. Chesterton: «Una narrazione fittizia (quasi invariabilmente, ma non necessariamente, in prosa) in cui l’essenziale è che la storia non sia raccontata in funzione della sua nuda incisività aneddotica, o dei paesaggi e delle visioni marginali che possono finirvi impigliati dentro, ma in funzione di uno studio delle differenze tra gli esseri umani».
Ci pare doveroso notare, a questo punto, come la fattispecie di narratori presi in esame da Chiaromonte riveli una peculiarità molto chiaromontiana: nessuno di essi, infatti, è un romanziere di professione. Non lo è Stendhal che quando arriva al romanzo (piuttosto tardi) lo affronta con piglio squisitamente dilettantesco. Non lo è Tolstoj che vive la vocazione artistica in modo penitente e drammatico. E in senso stretto, non lo sono neppure Pasternak e Malraux, un poeta e un avventuriero prestato alla politica. Ciò che di primo acchito può sembrare un limite è in realtà una ricchezza. La fiducia che loro ripongono nell’arte del romanzo non è di marca parnassiana, come nel caso di Flaubert o di Nabokov. Essi considerano il romanzo un diaframma (uno specchio, avrebbe detto Stendhal). La sua natura ambigua e promiscua offre all’artista opportunità impareggiabili, e all’esegeta orizzonti inediti. Per chi come Chiaromonte è ossessionato dalla definizione dell’evento storico, il romanzo è uno scrigno pieno di enigmi affascinanti e senza soluzione. Nella premessa scrive:
«Mi rimane ora da rispondere a un ultimo quesito: perché mi son servito di opere d’immaginazione, anziché di opere teoriche o storiche, per discutere argomenti quali il rapporto fra l’individuo e l’evento storico e il ritorno del senso del Destino in un mondo che sembrava (e sembra tuttora) permeato una volta per tutte dell’ideale dell’evoluzione storica e del progresso? La risposta è semplice: a mio parere, è soltanto attraverso la finzione, e nella dimensione dell’immaginario, che è possibile apprendere qualcosa sull’esperienza autentica dell’individuo».
Insomma, niente come la finzione romanzesca è in grado di definire il posto dell’individuo nel mondo.
A ben guardare, tale approccio ermeneutico non è molto distante da quello di un letterato eretico come Giacomo Debenedetti che più o meno negli stessi anni s’interrogava sull’essenza e sulla funzione del romanzo. Discorso analogo può essere fatto per un altro scrittore di levatura europea, come Milan Kundera, il quale, diversi anni dopo, avrebbe affrontato le sue eleganti divagazioni sul romanzo con atteggiamenti altrettanto spregiudicati e onnicomprensivi. «Nel modo che gli è proprio, secondo la logica che gli è propria, il romanzo ha scoperto, uno dopo l’altro, i diversi aspetti dell’esistenza». Ecco una constatazione di Kundera che Chiaromonte avrebbe potuto sottoscrivere. Così come avrebbe sottoscritto la seguente, ancor più spericolata: «La sola ragion d’essere di un romanzo è scoprire quello che solo un romanzo può scoprire. Il romanzo che non scopre una porzione di esistenza fino ad allora ignota è immorale. La conoscenza è la sola morale del romanzo».
Quasi mai le buone intenzioni generano azioni conseguenti. Ecco l’amara constatazione da cui prende piede Credere e non credere. Chiaromonte ci fa sapere che è giunto a questa sconsolata conclusione valutando il tragico itinerario compiuto dal socialismo europeo. Che un movimento nato con l’intento di promuovere «la causa della giustizia e dell’eguaglianza» possa aver trovato la propria trionfale realizzazione in un regime illiberale, oscurantista e omicida è un paradosso talmente abominevole da mettere in crisi chiunque ritenga i diritti civili il cardine di una società evoluta. «Come può un’idea esser sconfitta da un evento?» si chiede Chiaromonte.
Una domanda che forse si pone (ben farebbe a porsela) anche Fabrizio Del Dongo, l’ingenuo eroe della Certosa di Parma quando, sul campo di battaglia di Waterloo, prende atto di come la guerra sia diversa da come se l’era figurata. A dispetto di tante fanciullesche illusioni lo spettacolo è di uno squallore ridicolo e imbarazzante. Tutto si riduce a una serie di comportamenti egoisti e gesti brutali. Lo spirito di sopravvivenza ha la meglio sui buoni propositi, l’eroismo di massa cede alla codardia individuale. Il colpo di genio di Stendhal, più volte sottolineato dalla critica e ribadito da Chiaromonte in pagine vibranti, consiste nell’aver voluto descrivere la rotta delle truppe napoleoniche attraverso gli occhi di Fabrizio: una prospettiva talmente soggettiva e parziale da farci dubitare che quella in atto sia davvero una battaglia. Per darci il senso del truce realismo stendhaliano, Chiaromonte fa un confronto tra la cronaca della sconfitta di Waterloo de La Certosa di Parma e quella allestita da Victor Hugo ne I miserabili. Il titanismo, corroborato da una messianica fede nella Provvidenza (il solo motore della Storia), induce Hugo a indossare i panni della divinità impassibile. Niente interessa meno Hugo del destino del singolo soldato spaurito. La sua visione è panoramica, e per questo tanto irrealistica quanto boriosa e disumana. Non è difficile capire per chi parteggi Chiaromonte, né perché. «Il linguaggio di Victor Hugo sorpassa con tale imperturbabile foga i limiti del ridicolo che non si riesce a sorriderne: sotto le frasi reboanti si avverte troppo bene la tensione animosa del veggente che cerca di trasmettere alle turbe la rivelazione ricevuta dal Dio». Decisamente più aderente al vero appare la versione stendhaliana. Essa muove da un’idea della Storia antitetica a quella del suo illustre compatriota. Un’idea talmente misera e smaliziata che (almeno nel romanzo) non viene mai esplicitata. Stendhal, in controtendenza con i grandi pensatori del suo secolo, non crede nella Storia. Ed ecco perché, vista attraverso gli occhi sgomenti di Fabrizio, la battaglia di Waterloo non esiste, o almeno non esiste nel modo in cui la storiografia ufficiale ce l’ha tramandata. Stendhal non prova neppure a capire perché le cose siano andate così. Si limita a constatare l’impossibilità di conferire un significato a qualsiasi evento storico. Una presa d’atto talmente demoralizzante da non meritare spiegazioni superflue.
Ben altro discorso merita Tolstoj. È evidente che, per scrivere Guerra e pace, ha preso spunto da La Certosa di Parma. Ma è altrettanto chiaro che, per tirare le somme ed esporre nel mondo più disteso il suo augusto punto di vista, ha dovuto porre in appendice al romanzo un paio di epiloghi esplicativi. Naturalmente a interessare Chiaromonte è il secondo, quello in cui Tolstoj dà conto della sua filosofia della Storia. A offrirgliene il pretesto è il saggio-capolavoro di uno studioso a lui affine come Isaiah Berlin, intitolato Il riccio e la volpe. Berlin parte da un dato di fatto: la concezione della Storia professata da Tolstoj nel secondo epilogo di Guerra e pace ha avuto più detrattori che fan. E questo non solo per la diffidenza – venata di snobismo e di un comprensibile complesso di inferiorità – degli storici nei confronti degli artisti, ma per la dilettantesca ingenuità cui indulge Tolstoj. Con la sua prosa elegante e felpata, Berlin prova a ribaltare questo cliché affrontando gli argomenti tolstoiani senza pregiudizi. Nel farlo, si accorge che essi sono ricchi di intuizioni degne del suo genio letterario. È stupido, si accalora Berlin, separare con nettezza il Tolstoj artista dal Tolstoj pensatore. Se non altro perché (epilogo a parte) queste due anime s’intrecciano spesso fin quasi a fondersi nelle pagine più elettrizzanti del romanzo (per esempio, quelle dedicate alla battaglia di Borodino). L’impresa più difficile è illustrare in modo coerente e appropriato il punto di vista di Tolstoj, se non altro perché il suo procedimento risulta alla resa dei conti più decostruttivo che propositivo. Le domande che affollano la sua mente inquieta sono talmente essenziali da apparire, di primo acchito, pedestri, non meno delle transitorie risposte che gli ispirano: «Qual è la causa degli avvenimenti storici? Il potere. Che cos’è il potere? È la somma delle volontà trasferite a una sola persona. A quali condizioni le volontà delle masse si trasferiscono a una sola persona? A condizione che la persona esprima la volontà di tutti. Cioè il potere è il potere. Cioè “potere” è una parola di cui non comprendiamo il significato». Basta questo passo (famosissimo) per capire come Tolstoj abbia più domande che risposte. Per questo esecra sia gli storici antichi che quelli moderni. Non sopporta che su certi argomenti ci si esprima in modo apodittico. Lui stesso, quando si trova nella scomoda posizione di teorizzare, brancola nel buio. Alla domanda delle domande – perché le cose sono andate come sono andate? – rimane afono, attonito, sgomento. Non deve sorprendere allora che un pensatore liberale come Berlin dia tanto peso alle titubanze tolstoiane. Né che Chiaromonte, raccogliendo la sfida, gli vada dietro.
Al solito lo fa a modo suo, nella maniera che gli è consona, infilandosi nelle pieghe più ambigue e vischiose del discorso. «L’errore principale dei filosofi della storia – quello contro cui Tolstoj più si ribellava – è di aver cercato la verità, la razionalità, la libertà negli avvenimenti temporali. Invece, più l’uomo si impegna nel tempo e nel vortice delle azioni storiche e più, dal fondo stesso della sua libertà, riemerge la sua dipendenza dal caso e da una necessità incalcolabile». In toni non troppo dissimili, muovendo da presupposti analoghi, si esprimeva più o meno negli stessi anni Italo Calvino quando, in un saggio del 1958 intitolato Natura e storia del romanzo, puntualizzava: «L’epica moderna non conosce più dèi: l’uomo è solo e ha di fronte la natura e la storia. (…). I grandi romanzi sembra che nascano puntualmente apposta per correggere le idolatrie tentate dalla filosofia, per guardarle con l’occhio critico e relativo dell’uomo che non si considera più il centro dell’universo». Calvino è animato dallo stesso scetticismo di Chiaromonte. Anche lui considera Tolstoj un maestro del sospetto. Che non sia questo il cuore del realismo su cui la critica non ha ancora smesso di interrogarsi? Da notare come il saggio su Tolstoj occupi la parte centrale di Credere e non credere. È qui, infatti, che la speculazione di Chiaromonte raggiunge l’apice, qui il discorso si fa denso, penetrante, malinconico. Tolstoj è il suo uomo: il romanziere-filosofo, il romanziere-saggista. Leggerlo, interpretarlo, chiosarlo può fungere da antidoto al cicaleccio dei sedicenti intellettuali engagé di marca sartriana cui Chiaromonte non risparmia le sue stoccate.
«Mentre i nostri contemporanei discutono, sì, molto d’impegno e di disimpegno, e temono molto più che i loro predecessori dell’Ottocento di essere giudicati moralmente leggeri, ma tutto questo sempre sul piano della discussione letteraria fra letterati, o ideologica fra ideologi; ossia finché non tiri a conseguenza. Appena il discorso si faccia serio, e tocchi davvero l’ordine delle idee, davvero la coscienza, essi sembrano pensare che si sia fuori dal seminato – fuori dalla letteratura – e che non valga la pena di continuare. Giacché quel che a loro importa, nel negare e sommuovere e insistere che fanno su temi come la “non arte”, è pur sempre di fare letteratura e anzi, con tutte le sovversioni che si vorrà, di continuare a fare la letteratura che si faceva prima. La quale letteratura, già nel 1898 (l’anno in cui Tolstoj pubblicò il famoso libello Che cosa è l’arte?), si distingueva per la ricerca della novità e la baldanza sovversiva».
A indignarlo è la frivolezza, la retorica, l’incapacità di andare al cuore delle cose. Niente a che vedere con Tolstoj che rifugge qualsiasi atteggiamento dottrinario. Le sue idee emergono naturalmente, dolorosamente, dalla contemplazione del reale. E per questo sono (almeno per lui) questione di vita o di morte, al punto da mettere in discussione la sua essenza di uomo e, per osmosi, il senso della sua missione artistica. Ecco perché le sue divagazioni intorno alla Storia, per quanto non sempre calibrate e intelligibili, meritano il rispetto che si deve alle grandi avventure dell’intelligenza umana. Ed ecco perché Chiaromonte se ne appropria per dare forma alla sua teoria della Storia, che proprio come quella di Tolstoj appare esitante, malcerta, improntata al dubbio. «Ciò che la storia rivela da ultimo è dunque una Necessità la cui legge rimane sconosciuta». Insomma, non se ne esce. Non ci sono teorie che possano dare un senso alla guerra e alla rivoluzione. Nel saggio su Pasternak, Chiaromonte rincara: «Per quanto cerchi una giustificazione suprema della storia secondo la natura o secondo il messaggio cristiano, Pasternak rimane molto vicino alla concezione tolstoiana dell’assurdità inerente alla storia quando essa prende le forme della “guerra” (forme che naturalmente comprendono anche la rivoluzione e l’azione di governo)».
Che non sia questo il fascino di Credere e non credere? Un fascino che risiede – strano paradosso – nella sua inafferrabilità. L’incapacità di Chiaromonte di fornire risposte, di colmare il vuoto lasciato dal dubbio, oltre che un encomiabile atto di modestia, è una prova di intelligenza tanto rara quanto preziosa. Che non basti questo a spiegare l’impopolarità che in vita lo ha reso un pensatore elitario e marginale, e che ne ha decretato per tanto tempo l’oblio? È difficile avere a che fare con un intellettuale che non ha lezioni da impartire, è arduo sostenere lo sguardo di un uomo che non ha la verità in tasca.