La Lettura, 7 aprile 2023
Rileggere Lezioni di Ian McEwan
Vorrei cominciare a parlare di Lezioni, di Ian McEwan, da poco uscito in Italia, dicendo che secondo me si tratta del romanzo più importante e più necessario e più bello che sia comparso in questo (quasi) primo quarto di secolo. È un’affermazione impegnativa e cercherò di circostanziarla il meglio possibile, ma d’altronde un quarto di secolo è un segmento rappresentativo e già degno di attenzione, all’interno del quale è del tutto lecito stilare un primo bilancio. Andando a guardare nel secolo passato, per esempio, ci si rende conto che nel 1923 erano già comparsi l’Ulisse, i primi quattro libri della Recherche (e gli ultimi tre erano comunque già stati scritti, benché pubblicati dopo la morte di Proust, avvenuta nel 1922), Tonio Kröger e La morte a Venezia, La metamorfosi (e anche qui, benché pubblicati postumi, erano già finiti Il processo e Il castello), La coscienza di Zeno, L’età dell’innocenza e Martin Eden — oltre ad altri che come La montagna magica, hanno visto la luce nei due anni immediatamente successivi. Per quanti capolavori siano stati scritti nel resto del Novecento, la preminenza dei titoli che ho citato non verrà superata – tutt’al più verrà eguagliata.
Guardiamo dunque con chi deve vedersela Lezioni. Ovviamente citerò solo romanzi che ho letto, e li citerò non soltanto per mia preferenza personale ma anche in considerazione dell’influenza che hanno esercitato e ancora esercitano sulla letteratura contemporanea – che, come è noto, è molto più difficile da giudicare di quella del passato; e diamo per condiviso che i capolavori scritti da Thomas Pynchon, Don DeLillo, Philip Roth, Toni Morrison, Mario Vargas Llosa, Kenzaburo Oe, Umberto Eco, J. M. Coetzee, José Saramago e David Foster Wallace insistano più sul Ventesimo secolo che sul Ventunesimo – il che significa attenerci alle date di pubblicazione successive al 1999. Mettiamoci per forza i capolavori: L’anno del pensiero magico di Joan Didion (2005), Canada di Richard Ford (2013), La strada di Cormac McCarthy (2006), 2666 di Roberto Bolaño (2005-2006), la Trilogia della pianura di Kent Haruf (fino al 2015), Gilead di Marylinne Robinson (2004), Espiazione dello stesso McEwan (2001); e aggiungiamoci pure tutta la saga di Harry Potter di J. K. Rowling (fino al 2007), Sorella, mio unico amore di Joyce Carol Oates (2008), Il tempo è un bastardo di Jennifer Egan (2011), Le correzioni di Jonathan Franzen (2001), Una vita come tante di Hanya Yanagihara (2015), La morte del padre di Karl Ove Knausgård (2001), Non lasciarmi di Kazuo Ishiguro (2005), Vite che non sono la mia di Emmanuel Carrère (2013), LaRose di Louise Erdrich (2016), L’amica geniale di Elena Ferrante (2011), Caduto fuori dal tempo di David Grossman (2012), Salvare le ossa di Jesmyn Ward (2011) – aggiungiamoli in rappresentanza di tutti gli altri grandi romanzi che non ho letto.
Il punto è: perché considerare Lezioni il romanzo più importante tra tutti questi? Perché il più necessario? Perché il più bello?
Innanzitutto perché non è solo un romanzo, ma è un vero e proprio monumento al romanzo. È semplicemente maestoso. Non vi compare la minima ritrosia a servirsi delle convenzioni e delle tecniche del romanzo tradizionale, e la scrittura che le utilizza è magistrale, lucente e, per usare proprio un’espressione contenuta nelle sue pagine, «libera da aridi sperimentalismi»; la sua forma, la sua mole, la sua ricchezza di temi e di dettagli dialogano direttamente con quelle dei grandi romanzi del Novecento e dell’Ottocento senza mai risultare forzate, o ideologiche, o inattuali. La perentorietà con cui si impone sullo spazio e sul tempo che attraversa dà una dimostrazione pratica di ciò che, su queste pagine, in una recente intervista concessa a Nuccio Ordine, sostiene Mario Vargas Llosa quando dice che il romanzo rimane ancora oggi il genere più adatto a «mostrare mali e difetti della società» e «agitare le coscienze». E di spazio e di tempo Lezioni ne attraversa in grande quantità, poiché si tratta di un lifelong novel, cioè di uno di quei romanzi che seguono l’intera vita del protagonista (come Anna Karenina, come Martin Eden, come David Copperfield, e anche come L’uomo senza qualità, laddove la vita fino alla fine della quale il romanzo si spinge non è quella del protagonista, Ulrich, ma quella di Robert Musil stesso). Tripoli, Londra, Berlino si alternano a cittadine senza attrattive del Regno Unito o della Germania dove ai personaggi è dato in sorte di nascere o morire – tutte descritte con un tripudio di particolari e animate da piccole e grandi scene che non lasciano mai nuda una sola frase. E dalla Londra del Blitz, prima ancora che il protagonista venga al mondo, si attraversa la storia dell’Inghilterra e dell’Occidente passando per la Rosa Bianca, la crisi di Suez, quella della Baia dei Porci, Chernobyl, la caduta del muro di Berlino, la Thatcher, gli attentati dell’11 settembre, la Brexit, il Covid e l’assalto al Campidoglio dei seguaci di Trump. Nessun romanzo scritto in questo secolo, almeno tra quelli che io abbia letto, si avvicina alla potenza e all’ambizione di questa messa in scena, eppure ogni pagina che leggiamo pare, oltre che potente e ambiziosa, assolutamente naturale – come se per un grande scrittore il romanzo fosse ancora il numero migliore sul quale puntare tutte le proprie fiche.
Il protagonista, Roland Baines, è un alter ego storto dell’autore, e l’autobiografia è la sostanza principale con cui McEwan lo ha costruito – un’autobiografia profonda, intima e a tratti quasi imbarazzante, quando si spinge a toccare «l’antico enigma» delle madri che abbandonano i figli come la sua ha abbandonato i propri: eppure, se mai venisse in mente di misurare il destino di Baines col metro della verità di ciò che è toccato a McEwan, ecco che è il romanzo stesso, tra la pagina 536 e la pagina 543, a impartire a Baines e a tutti noi una lezione su come si debbano leggere i romanzi.
I temi sono anch’essi moltissimi e tutti, come spazio e tempo, padroneggiati con mostruosa precisione, e tutti sempre intrecciati con la vita del protagonista – l’unico intreccio che veramente conta, in un romanzo, quello tra figura e sfondo. La musica, l’infanzia, la scienza, la religione, la famiglia, la perdita, la malattia, la morte, la storia, la politica. Un’attenzione particolare è riservata alla letteratura, quel mondo amatissimo, duraturo e fantastico che in Lezioni è una filigrana onnipresente – e mai in un romanzo contemporaneo si è vista una quantità così impressionante di autori citati o menzionati: Conrad. Dickens. Nabokov. Auden. Mann. Proust. Musil. Joyce. Kerouac. Hesse. Camus. Lowell. Heine. Moorcock. Ballard, Burroughs, Henry Green, Antonia White, Barbara Pym, Ford Madox Ford, Ivy Compton-Burnett, Patrick Hamilton. Elizabeth Bowen. Olivia Manning. Adrienne Rich, E. E. Cummings. Roth. Munro, Modiano, Herta Müller, Grass, James Fenton. Dorothy Parker.
E infine, ma in realtà prima di tutto, c’è il Danno, con la sua natura micidiale e attraente, con la sua strenua ineliminabilità. Quando ha undici anni e vive in collegio, Roland Baines, durante le lezioni di piano subisce dei pesanti abusi sessuali da parte della sua insegnante, Myriam Cornell, di dieci anni più grande. Lei adulta, dunque, e lui bambino. Dopodiché lei lo invita a pranzo a casa sua, la domenica successiva: saranno soli, e l’invito suona come una promessa. Roland non ci va – ma da quel momento, fin dal fiorire delle sue prime fantasie erotiche, la sua mente è monopolizzata da lei. Finché, tre anni dopo, giustificato dall’incombente minaccia della fine del mondo innescata dalla crisi dei missili sovietici a Cuba, una domenica prende la bicicletta e va da lei. Lo scambio di battute quando lei gli apre la porta è decisivo: «In ritardo di quasi tre anni. Il pranzo si è freddato». «Sono stato in punizione per un bel po’». Questa risposta così adulta al sarcasmo di Miriam («chissà dove l’aveva rimediata», chiosa il narratore) fa arrossire la donna e diventa la chiave che apre la porta a una relazione che durerà tre anni, durante la quale Roland la riconoscerà, sì, come una cosa insana, ma vi assocerà ugualmente l’orgoglio di esserne protagonista e l’estasi del sentirsi un giocattolo nelle mani di lei. Alla vigilia del suo sedicesimo compleanno, dinanzi alla decisione di Miriam di andare in Scozia a sposarsi, dato che in Scozia è possibile sposarsi a sedici anni, Roland fugge, lascia lei e il collegio e la vita che avrebbe dovuto portarlo a diventare un pianista di fama internazionale, affidandosi al destino di irregolare che lo accompagnerà per il resto del suo tempo.
Da lì in poi si srotola la sua esistenza assai ricca di esperienze: un apprendistato confuso in giro per il mondo, l’incontro con Alissa, il matrimonio, la nascita di un figlio, la fuga di lei per liberarsi dal peso di quei due maschi bisognosi (un marito quarantenne e un bambino ancora in fasce) e diventare una grande scrittrice, un altro matrimonio, altri figli acquisiti, la scoperta di un fratello occulto, e altri dolori ancora, altre fughe, altre emozioni, tutto accompagnato da lavori modesti come maestro di tennis e pianista di piano bar e da un’interminabile formazione culturale da libero autodidatta: ma mai, in nessun singolo istante della sua vita, la sua mente riuscirà a uscire dal cottage di Miriam Cornell dove è rimasto intrappolato per sempre il suo appagamento assoluto. «Quando si domandava se avrebbe preferito che nulla di tutto ciò fosse mai accaduto, non aveva una risposta immediata. Così funziona la natura del danno». Il tutto narrato in pagine di tale struggente bellezza da farci desiderare di esser stati abusati anche noi – come accade di desiderare di essere ciechi leggendo Cattedrale o di sguazzare nella miseria leggendo Viaggio al termine della notte.
Esattamente cinquant’anni fa Selling England by the pound, il quinto album dei Genesis, si apriva con questa memorabile domanda: «Can you tell me where my country lies?» Ecco: se il Paese in questione viene inteso come l’Inghilterra, la risposta è comparsa oggi: «Si trova in questo romanzo»; ma anche se, dopo il catafascio della globalizzazione (che è gloriosamente cominciata proprio col trionfo della pop music, per inciso), il Paese in questione diventasse l’Europa, l’Occidente, il mondo intero, la risposta rimarrebbe la stessa. La nostra patria, qualunque essa sia, sta in Lezioni.
Spero di avere argomentato abbastanza la mia affermazione iniziale, e di poter dunque raccomandare a tutti la lettura di questo romanzo. E quando dico a tutti intendo proprio a tutti, come si raccomanda a tutti di leggere Guerra e pace o I fratelli Karamazov, indipendentemente dalla capacità che si può avere di suggere tutto il nettare che contengono, o solo metà, o anche solo una piccola parte: non c’è bisogno di essere dei lettori forti per godere della prodigiosa dissolvenza con cui, tra il brusco appannarsi delle lenti degli occhiali di Roland e il loro graduale schiarirsi, si chiude il sesto capitolo di Lezioni e si apre un nuovo mondo.
A tutti, lo raccomando, eccetto forse a coloro che in questi anni si sono troppo sbilanciati nel sostenere che il romanzo è morto: sarebbero costretti a cambiare idea, e cambiare idea è sempre molto faticoso. A loro raccomando di ignorarlo, così da poter rimanere coerenti con le proprie idee.