La Lettura, 7 aprile 2023
Intervista a Jonathan Littell
Jonathan Littell mi chiede di ricordargli qual è il pretesto per la nostra conversazione, dal momento che il suo prossimo libro – una raccolta di interventi sull’Ucraina – uscirà in Italia solo in autunno. Gli dico che i pretesti, per quanto mi riguarda, sono svariati. Ma poi non entro nello specifico, per esempio del fatto che non solo la sua opera ma la sua stessa postura come scrittore, mi hanno ispirato fin da quando ho iniziato a scrivere, almeno quanto mi hanno ingombrato la testa e messo in crisi. Gli chiedo, invece, perché lui abbia accettato.
«Hai menzionato l’Ucraina».
È vero. So che dall’invasione su larga scala in avanti, l’Ucraina ha occupato quasi tutto il suo tempo. Ma la guerra è al centro della sua attività da molto prima. Littell ha operato a Sarajevo in un’organizzazione umanitaria, e anni più tardi in Cecenia. Dopo Le benevole ha scritto un reportage dalla Siria e girato un documentario in Uganda. Approcci diversi, forse complementari – gli aiuti umanitari e il giornalismo —, a cui se ne aggiunge un terzo, quello dello scrittore, che ha regole d’ingaggio meno chiare, confini meno definiti. Forse possiamo partire da lì.
«Non so se sono la persona giusta per parlarne. Ero un professionista nell’ambito degli aiuti umanitari molto prima di scrivere Le benevole. E dopo il libro ho continuato a lavorare sulle guerre come giornalista, quindi di nuovo con un’attitudine professionale. La mia prima guerra è stata Sarajevo, nel 1993. Già allora c’erano molti turisti. Persone che non avevano una ragione specifica per essere lì, senza una raison sociale, come si direbbe in francese. Star del cinema eccetera. Non mi piaceva affatto. Mi sembrava stupido essere in una zona di guerra senza un buon motivo».
La parola «turisti», nel contesto, mi sorprende un po’, tanto che devo fargliela ripetere più volte prima di afferrarla. Littell lo intuisce, perché stempera:
«Dopodiché, tutti coloro che scelgono di avvicinarsi alla guerra hanno una motivazione personale per farlo, che va oltre quella lavorativa. Il solo averlo scelto dice qualcosa di te. Comunque sia, quando sei lì devi avere chiaro che stai partecipando, che stai facendo qualcosa che è parte del conflitto stesso, non sei solo un bystander. I giornalisti, per quanto obiettivi provino a essere, stanno creando la narrazione. I membri delle organizzazioni umanitarie possono aiutare una parte o l’altra, oppure entrambe, ma in ogni caso stanno fornendo materiali per il conflitto. Tutto è parte del conflitto. E lo stesso vale per i soldati: molti di loro sono lì senza volerlo, ma ce ne sono parecchi a cui piace esserci per qualche ragione personale. Testosterone, trauma, una combinazione dei due».
Trovi la prospettiva degli scrittori stranieri sull’Ucraina interessante, o la narrazione dovrebbe essere lasciata a chi partecipa?
«Nel dibattito attuale c’è la moda di criticare chiunque si occupi di qualcosa che non corrisponde al cento per cento con chi è. Ma è un atteggiamento abbastanza ridicolo. Omero non ha esattamente combattuto nella guerra di Troia. E Shakespeare non ha esattamente sperimentato ciò che raccontava. Mi sembra che la legittimità di scrivere o fare film su un argomento sia legata semmai ai percorsi di conoscenza. È chiaro, in termini generali ognuno dovrebbe scrivere solo delle cose che conosce, mi sembra un assunto fondamentale della scrittura. E non vale solo per la guerra: anche se vuoi scrivere di camminare nelle foreste e non frequenti le foreste, è meglio che lasci perdere. Ma il modo in cui si conoscono le cose può essere molto vario. Non c’è bisogno di essere trans per scrivere delle persone trans, né nero per scrivere di persone nere, né ucraino per scrivere dell’Ucraina. Devi semplicemente avere una tua esperienza e una tua prospettiva. Quanto all’esperienza diretta, è comunque molto diversa se ti trovi nelle retrovie o più vicino al fronte o davvero nel punto di contatto. Sarajevo, per esempio, era una città abbastanza piccola, quindi non eri mai davvero lontano dal fronte. Il mio appartamento sarà stato a un chilometro in linea d’aria. Io mi sedevo sul balcone dopo il lavoro e vedevo i soldati al di là della vallata venire colpiti. Nel frattempo stavo bevendo il mio whisky, fumando una sigaretta con la mia ragazza. Ogni tanto ci capitava qualcosa di più vicino, ma ogni tanto è molto diverso da ventiquattr’ore su ventiquattro. Perciò, tra me e quei ragazzi ad appena un chilometro, c’era molta più distanza che tra me e le persone che stavano a Parigi. Lo stesso vale per gli ucraini».
Nelle pause del racconto – anche se Littell non ne fa molte – la registrazione cattura i rumori ambientali del bar di Barcellona dove ci troviamo, a Gracia, vicino Plaça de la Virreina: le risate del tavolo accanto, le ruote dei passeggini sulla pavimentazione, conversazioni telefoniche. Suoni da tempo di pace. Gli chiedo, ora che è uscito un nuovo report delle Nazioni Unite sui crimini di guerra russi in Ucraina, un report che l’opinione pubblica ha trovato scioccante, se per lui ci sia qualcosa di veramente nuovo e inaspettato.
«La Russia ha sempre condotto le sue guerre in un modo che dalla legislazione internazionale è considerato altamente criminale. È semplicemente il modo in cui combattono le guerre. Cecenia, Siria: in entrambe hanno commesso un numero spropositato di crimini. Colpire gli ospedali, bombardare aree residenziali. Tutti, in guerra, commettono crimini, e tutti creano danni collaterali in combattimento. I Paesi occidentali più civilizzati cercano di limitarli al massimo, il che non significa che non ne commettano e che poi non cerchino di nasconderli. Ma la differenza è fondamentale, si tratta di una questione di scala. Gli Stati Uniti sono andati fuori controllo con le torture in Afghanistan e in Iraq, ma è l’unico esempio che conosco, dopo la Seconda guerra mondiale, in cui degli eserciti occidentali hanno agito deliberatamente, per policy esplicita, in violazione delle leggi internazionali. Per i russi, invece, è la prassi. L’uccisione di civili, la tortura e l’assassinio dei prigionieri, la scomparsa dei cadaveri dei loro stessi soldati per evitare di registrarli; i bombardamenti di massa delle città, l’uso di armi illegali come le bombe a grappolo e i missili termobarici. Nulla di quello che sta accadendo in Ucraina è molto diverso da ciò che ho visto in Siria e in Cecenia. D’altronde, è lo stesso esercito che si comporta nello stesso modo. La differenza è che in Siria e in Cecenia i russi combattevano persone che consideravano straniere, aliene all’essere russi russi. Volevano riconquistare il territorio ceceno, ma per loro i ceceni non erano nashi (nostri), erano vashi (vostri). Con l’Ucraina, almeno a parole, i russi affermano di voler restituire alla Russia un territorio che già le appartiene, di liberare una popolazione russa che non sa più di esserlo. Ed è molto interessante come infliggano a una popolazione che considerano russa lo stesso trattamento che hanno riservato a popoli che ritenevano selvaggi, neri, musulmani. In realtà non è così sorprendente nemmeno questo. Se si guarda la Russia da vicino, questo è proprio il modo in cui la gente, lì, si relaziona nel quotidiano, anche in tempo di pace. Nel sistema penitenziario, nell’esercito. Durante le guerre in Cecenia sono morti qualcosa come duemila giovani soldati, ragazzi di diciannove anni, per la pratica della dedovshchina (il nonnismo durante il servizio militare). Considerato il numero altissimo di persone che in Russia circolano attraverso le prigioni, l’esercito e le guerre, il livello di violenza iniettato ogni giorno nella vita civile è sconsiderato».
In un’intervista filmata di qualche anno fa, ho visto delle foto scattate da Littell in Cecenia. I panorami erano identici a quelli delle zone liberate in Ucraina. Gli chiedo come lo abbia cambiato, se lo ha cambiato, tenere lo sguardo su quella distruzione per anni.
«Non so risponderti. Non credo di saperlo. Di certo sono più esperto. Ma è una domanda difficile».
Ci pensa più a lungo. Poi:
«La guerra suscita ogni tipo di bizzarra reazione psicologica nelle persone. Nessuno è nella posizione ideale per analizzare come agisce su di sé. Ma so per certo che è diverso da quel che si vede nei film: quel processo per cui all’inizio si è molto spaventati e poi ci si abitua, è una stronzata. Semmai è vero il contrario. All’inizio non sei davvero cosciente di quello che succede, poi lo capisci e hai molta più paura. L’artiglieria mi spaventa molto più adesso di vent’anni fa».
Poi, ancora:
«È soggettivo. Quando ero in Siria, nel 2012, ho visto morire dei bambini che avevano l’età dei miei figli, e ne sono rimasto più scosso rispetto a dieci anni prima, quando avevo visto morire altri bambini in un contesto diverso. L’avere dei figli creava in me un’empatia più diretta. Eppure conosco molti giornalisti e fotografi che hanno figli, proprio come me, ed evitano di fare qualunque collegamento. O magari lavorano moltissimo proprio per non fare il collegamento. L’esperienza di fotografi che lavorano per il “New York Times” o il “Washington Post”, passando da un conflitto all’altro, sempre sul fronte, sempre con persone che si sparano e di cui cambia solo l’uniforme, è molto diversa dalla mia. Che è più analitica. Molto più basata sullo studio e le relazioni. Con la sola eccezione della Siria, vado sempre in posti in cui parlo la lingua e posso avere confronti diretti con le persone».
Come in Ucraina.
«A livello personale l’Ucraina è un’esperienza molto diversa, perché lì avevo una vita prima dell’invasione su larga scala. L’avevo frequentata per almeno quattro anni, il capodanno del 2022 l’ho passato a Kiev a festeggiare con i miei amici di lì, stavo cercando un appartamento per trasferirmi. Quindi, nei primi giorni dopo l’invasione, per me non si è trattato di seguire le notizie, ma di contattare le persone, capire chi era dove, se avevano bisogno di andare via, come aiutarli. Questa irruzione della guerra nella vita è stata una frattura più profonda. Come lo è, con un’intensità ancora maggiore, per tutti gli ucraini e le ucraine».
Cos’è più frustrante nel dibattito occidentale sull’invasione?
«La stessa cosa che è stata frustrante per vent’anni. L’aver ripetuto, in molti, che Vladimir Putin era una minaccia per tutti, che la Cecenia era solo l’inizio eccetera. E la normalizzazione che invece ne veniva fatta, dai politici anzitutto, sostenendo che Putin fosse un politico come loro, che aveva i suoi interessi come loro, e che con lui si facevano affari. Non era così. Putin è un boss mafioso, dedito a mantenere il suo potere mafioso. La politica in Europa occidentale può essere più o meno corrotta, più o meno distorta, ma non è un’organizzazione mafiosa. Ed è frustrante che alcuni Paesi dell’est Europa l’avessero capito benissimo già con la Cecenia, con la Siria, con la Crimea, ma siano rimasti inascoltati, marginalizzati. Sono felice che questo ora stia cambiando. Il baricentro decisionale dell’Europa si sposta verso est, anche se la capacità produttiva è ancora in Paesi come Francia e Germania. La proposta per l’acquisto congiunto di munizioni, per esempio, viene dall’Estonia».
Leggi ancora fiction?
«Sì, molta. È diventato più un piacere con il tempo. Prima, in effetti, ci stavo anche tornando».
Credo intenda: prima dell’Ucraina, prima dell’invasione. Gli chiedo, nel caso avesse un libro pronto, se venderebbe i diritti a un editore russo.
«Ho appena venduto due titoli a un editore di San Pietroburgo, Una vecchia storia e Les récits de Fata Morgana. Naturalmente ho fatto una scelta molto accurata. E ho chiesto che esistessero delle versioni digitali in modo che potessero essere letti anche fuori dalla Russia. Pubblico regolarmente i miei articoli su «Meduza». Credo che i russi debbano avere accesso a voci diverse, non solo su ciò che riguarda l’Ucraina, ma anche – nel caso della mia fiction, per esempio – sulla sessualità queer. Al tempo dell’Unione Sovietica la cultura straniera è stata un nutrimento per molte persone, in particolare la musica, il rock’n’roll».
Quindi non pensi che la cultura dovrebbe rientrare fra le sanzioni economiche.
«Non mi sono addentrato in un giudizio di questo tipo. Cultura è un termine molto vasto, tendo a vedere i libri come se fossero dei dischi».
Ribadisce che bisogna fare attenzione alle persone con cui si lavora, alle posizioni che hanno, ai loro legami economici.
«L’altro problema in Russia è cosa viene fatto del testo. Io leggo il russo in modo un po’ elementare, quindi non avevo letto la traduzione delle Benevole, ma a un certo punto la mia traduttrice lituana ha scoperto che era stato pubblicato con venti pagine in meno. Secondo l’editore si trattava di un taglio migliorativo... Comunque siamo finiti in tre anni di battaglie legali, che infine hanno portato alla pubblicazione integrale».
Dal momento che ha citato lui Le benevole, azzardo la domanda che forse ho in serbo da quindici anni: come si possa sopravvivere alla scrittura di un romanzo così. Ma i miei quindici anni di attesa valgono una risposta che occupa a malapena una riga, pronunciata con un tono più basso, quasi inaudibile nella registrazione:
«Non è stata dura. È stato difficile iniziare. Ma una volta iniziato, per me è facile». Fa un’altra lunga pausa. Poi mi concede:
«Mettiamola così, per essere più specifico: qualunque psicologia tu stia attraversando mentre scrivi, non ha nulla a che fare con il contenuto. Scrivere Orgoglio e pregiudizio non è più facile di scrivere Le benevole, anzi. Che uno scriva di guerra o di famiglia, sta scrivendo. La difficoltà è quella».
Mi addentro di più nel tema della sopravvivenza, Littell cita Primo Levi e David Rousset, ma con una certa riluttanza:
«Il mio approccio non è mai stato cercare il punto di vista dei sopravvissuti, delle vittime. Sono più interessato ai colpevoli».
Il punto di vista dei colpevoli di adesso servirebbe?
«Credo che i russi avrebbero un gran bisogno di capire meglio sé stessi. Nonostante abbiano nella loro storia alcuni dei più grandi scrittori di sempre, non sono passati attraverso un vero esame di coscienza sul Novecento, sulla violenza di Stalin. Hanno avuto autori capaci di analizzare quelle fasi, ma sono rimasti abbastanza inascoltati. Il sistema di violenza in Russia è basato anche su una mitizzazione della gloriosa, necessaria violenza: offrire il petto alle pallottole, sventolare bandiere, tutta quella schifezza ha una presa molto forte sull’immaginario popolare. Temo che purtroppo la letteratura sia insignificante rispetto a questo. Neppure nel cinema russo c’è mai stato un equivalente di Apocalypse Now che, seppure nel suo modo americano, portava una critica al sistema. Molta produzione cinematografica russa è stata decisamente non critica, oppure fintamente cinica ma in realtà compiacente. C’è stato giusto qualche tentativo interessante al tempo della perestrojka. Mi vengono in mente due film di Vitali Kanevsky, Sta’ fermo, muori e resuscita e Una vita indipendente, un dittico sulla sua infanzia in Siberia dopo la Seconda guerra mondiale. Il trauma, la criminalità, i gulag. Film bellissimi. Ma hanno avuto vita breve. Senza un vero seguito».
Provo a menzionargli Leviathan e Loveless di Andrej Zvjagincev.
«Non sono mai stato un entusiasta di quei film. Non per ragioni politiche, la politica è a posto. Più da un punto di vista artistico. Mi sembrano fatti per un pubblico occidentale, Leviathan in particolare. Quello che racconta è ovvio. Troppo ovvio. Si limita a mostrare all’esterno ciò che dall’interno (della Russia) è del tutto evidente».
Quindi la prospettiva russa ti sembra la più interessante in assoluto da esplorare nel presente?
«Anche la prospettiva ucraina è estremamente interessante. C’è un dibattito interno molto acceso in Ucraina, che l’escalation ha momentaneamente congelato».
Gli parlo di come, andandoci, mi sia trovato un po’ spiazzato dal nazionalismo così diffuso e crescente. Sebbene la ragione sia chiara e in un certo senso del tutto giustificabile.
«Il nazionalismo che è comparso in Ucraina dopo l’invasione su larga scala è molto diverso da quello tradizionale. È un tema che conosco bene, perché è al centro del libro a cui sto lavorando. Il nazionalismo ucraino tradizionale, che arriva soprattutto dal Diciannovesimo secolo, è basato in parte sulla lingua ma soprattutto sull’appartenenza etnica. Riguarda le origini, è verticale. Il nazionalismo che si è diffuso dopo l’invasione, invece, è orizzontale. Ha un carattere civile. L’etnia non c’entra più, infatti riunisce tutti. Conosco persone, anche in posti apicali della politica e della cultura, che non sono etnicamente ucraine: sono afghani, russi, armeni, georgiani».
Li nomina uno a uno, nei rispettivi ruoli.
«Anche utilizzare l’ucraino al posto del russo non ha più un valore etnico, è solo un modo per unire la popolazione. Quella vecchia forma di nazionalismo, a circuito chiuso, adesso è marginalizzata in Ucraina. Le voci degli estremisti di destra, che prima facevano molto rumore, non si sentono più. Mi ricordo che nell’ottobre del 2021 sono stato a una manifestazione e c’erano ancora tutti i gruppi estremisti, Svoboda, Azov e così via. Ma ora sono scomparsi. Conosco questo tizio che all’inizio dell’invasione si è unito a Svoboda solo perché voleva combattere subito ma non aveva esperienza militare. In estate è finito a Lysychansk, uno dei fronti peggiori. L’ottanta per cento dei suoi commilitoni era come lui: nessun interesse per l’ultranazionalismo, erano persone normali che volevano contribuire. Mi ha raccontato di come i leader dell’ultradestra cercassero di portarli verso la loro causa attraverso i social, ma nessuno li seguiva, anzi li mandavano affanculo perché quei leader non erano nemmeno lì a combattere. L’ingresso di persone come lui, in un certo senso, ha de-estremizzato l’intero gruppo».
In pratica l’estremismo è stato diluito.
«Ormai i gruppi estremisti sono politicamente irrilevanti. Non raggiungono il 5 per cento. Che confrontato ai nostri rispettivi Paesi è invidiabile...».
Gli ucraini insistono sul fatto che l’invasione su larga scala vada compresa come l’ultimo atto di una storia di oppressione coloniale che l’Ucraina subisce da parte della Russia da molto prima. Ti convince?
«Assolutamente. Gli ucraini hanno ragione a insistere su questo. Anche l’espansione della Russia in direzione opposta, verso est, che in passato l’ha arricchita di materie prime, è stata un’espansione coloniale. Quelle aree erano abitate da popolazioni native che vennero sottomesse, e lo sono ancora. Lo stesso vale per l’Ucraina. In Ucraina i russi si stanziarono e stabilirono strutture di controllo, con qualche episodio di sterminio, come l’Holodomor e il massacro dei polacchi. Per i russi, come per gli inglesi e i francesi, esistono nazioni naturali e nazioni artificiali. Ma la verità è che tutte le nazioni sono artificiali quando nascono. Il confine tra Ucraina e Russia, come venne tracciato, non è più artificiale di quello che divide la Francia dalla Germania, o gli Stati Uniti dal Canada. La Russia stessa non ha confini stabili. Ed è uno strano paradosso: pur non avendo confini stabili da difendere, si sente sempre assediata».
Cerco di distrarlo un attimo dalla storia ucraina, ma senza successo.
«Fammi dire un’altra cosa: quanti libri, parlando della Seconda guerra mondiale, parlano di Russia? I russi hanno fatto questo e quello, hanno preso Berlino, hanno liberato Auschwitz eccetera. Ma non sono stati i russi, sono stati i sovietici».
Gli ucraini rivendicano anche una decolonizzazione culturale nei confronti della Russia, di cui si parla molto meno. Celebrano con forza autori che sentono identitari, fondativi, come Taras Shevchenko e Ivan Franko.
«Ho letto Shevchenko nell’anno passato, non l’avevo mai fatto prima, ed è meraviglioso. Parla di prigionia, povertà, oppressione. È molto intenso. Ma il vero passo successivo per gli ucraini, a cui prima o poi arriveranno, è di rivendicare come propri molti degli autori che sono considerati russi. Gogol’ ovviamente, ma non solo: Isaac Babel, Vasilij Grossman, anche Mikhail Bulgakov. Con Bulgakov ci sono dei problemi. Poiché denigrava il nazionalismo ucraino, ora vogliono chiudere la sua casa-museo a Kiev. Ma, se ci pensi, quanti stronzi abbiamo nella letteratura francese? Prendi Louis-Ferdinand Céline. Bulgakov resta comunque un grande scrittore, ed è davvero ucraino. Quindi che lo rivendichino pure».
Immagino che molto di tutto questo sarà anche nel tuo prossimo libro. Sarà breve, medio, lungo o lunghissimo?
«Medio. È un progetto in collaborazione con Antoine D’Agata. Testo e fotografie. In origine doveva parlare solo di Babi Yar, ma con l’invasione su larga scala è cambiato completamente e quella parte è stata assorbita dentro la guerra».
Come tutto il resto. A proposito di confini fluttuanti, gli chiedo se sappia ancora con chiarezza dove si trova quello tra scrivere fiction e scrivere non fiction.
«Certo che lo so. Lo so sempre».