Robinson, 7 aprile 2023
Intervista a Beppe Carletti
Il leader dei Nomadi racconta sessant’anni di carriera. Dai primi concerti nella Riviera romagnola all’incontro con Francesco Guccini. Un cammino di successi e di dolori A partire dalla scomparsa di Daolio, il cantante, la mente insostituibile del gruppo
Con Beppe Carletti sediamo in un ristorante di Reggio Emilia. Mi è venuto a prendere alla stazione che ha disegnato Calatrava. Beppe è un uomo gentile e alla mano. Mi piace il volto largo che spiana le rughe, la voce sbrigativa e il ciuffo che richiama gli anni felici della giovinezza. Perché felice è il Beppe leader dei Nomadi, da quando Augusto Daolio che del mito canoro emiliano è stato uno dei più grandi interpreti, non c’è più: «Eravamo il braccio e il suono. Lui un passo avanti con la voce io un passo indietro con le mani». Questa storia dei passi mi fa pensare al senso del camminare e i Nomadi, gruppo storico tra i più amati che quest’anno compie 60 anni di carriera musicale, ne sono un po’ il sigillo.
Quando nacque il gruppo?
«Il 13 giugno del 1963. Suonammo per due mesi e mezzo al Frankfurt Bar di Riccione. Suonavamo le cover più famose. Due spettacoli: il pomeriggio e la sera. Eravamo gasatissimi. Riccione somigliava a Las Vegas. Sembrava il paradiso del divertimento. Per noi musicisti in cerca di fortuna fu un’estate indimenticabile. Il gruppo era nato dalle ceneri di un altro complesso, “I Monelli” che avevo fondato un paio d’anni prima».
Perché il nome “Nomadi”?
«Era un’idea che ripresi da un giornale. Evocativa.
Immaginavo piccole popolazioni libere di muoversi e spostarsi per centinaia di chilometri. Gli anni Sessanta furono anche questo: il desiderio di viaggiare verso un altrove che la mia generazione sognava di raggiungere».
Ci sei riuscito?
«All’altrove non si può arrivare, altrimenti non sarebbe altrove. Però si può indicare, dargli una direzione. È il suo mistero: sapere che c’è e non raggiungerlo mai. Filosofia da nomadi, direi».
Ma tu vivevi in provincia.
«Con i miei c’eravamo trasferiti da Novi di Modena a Novellara. Dove tutt’ora vivo. Per me resta il posto più bello al mondo. Ma le cose importanti le ho imparate camminando, spostandomi o raggiungendo i luoghi più remoti dell’Asia o dell’America Latina».
Tornerei alla riviera romagnola.
«Quell’estate, come dicevo, arrivò il nostro primo successo. Tanto è vero che Paolo Righetti, il figlio del proprietario del locale, decise dopo quell’esperienza, di diventare il nostro impresario».
C’era già Augusto Daolio?
«Arrivò con noi a Riccione. Augusto era di Novellara e lavorava nel bar gestito dai genitori. Ne scoprii la personalità dirompente, una musicalità insolita, e una voce dotata di una estensione pazzesca, capace di scalare vette irraggiungibili. Solo Mina possedeva qualcosa di analogo».
Quando vedo le foto pubbliche di Augusto giovane penso a un seminarista: occhiali pesanti, barba a giro volto, un’espressione senza asprezze.
«Non aveva l’aria provocatoria, più che un seminarista sembrava uno studente dai tratti particolari. Certamente diverso dall’Augusto di 30 anni dopo, con la barba ormai ingrigita che aveva invaso il volto. Ma gli restava quella diversità che lo rendeva anche fisicamente unico. E penso chequesta unicità abbia contribuito a farne il leader del gruppo».
Il vostro primo successo fu “Come potete giudicar”
«Sì lo portammo al Cantagiro del 1966. Una specie di manifesto generazionale».
Un pezzo un po’ furbo, pieno di tronche.
«Furbo non direi, aveva una sua innocenza.
Cercavamo di infrangere un certo perbenismo imperante. Una cover che l’anno prima aveva cantato Sonny Bono. Era The Revolution Kind, ma alla traduzione noi demmo un carattere meno intellettuale. Stava per esplodere anche in Italia il fenomeno dei gruppi musicali. E il paese si divideva tra chi lo considerava una novità e la maggioranza che lo vedeva come oltraggio alle belle melodie».
Quell’anno, il 1966, ci fu l’incontro con Francesco Guccini.
«Credo che ci conoscemmo l’anno prima. Voleva che le sue canzoni trovassero una voce adatta e uno stile che trasmettesse più un senso di libertà che di ribellione e ci propose alcune canzoni. Nel 1966 incidemmo Noi non ci saremo e poi nel 1967 Dio è morto».
Quest’ultima suscitò molte polemiche e venne censurata.
«Fu la Rai a vietarla. L’idea che Dio morisse era considerata irricevibile. Ricordo che spedimmo una lettera chiedendo spiegazione sul perché avessero censurato il testo. Non ci risposero mai. In compenso Radio Vaticana trasmise integralmente la canzone.
Evidentemente non la giudicarono così sacrilega. Ad ogni modo la censura e le polemiche annesse giovarono a farci conoscere».
“Dio è morto” era lo slogan filosofico di Nietzsche. Lo avevi un po’ letto?
«Macché! Non mi sono mai spacciato per intellettuale. Ho fatto fino la terza media. Però, so che Guccini si ispirò a Urlo di Allen Ginsberg. Aveva la passione per l’America e credo che l’avesse in qualche modo alimentata leggendo i testi della Beat Generation. Scherzando mi diceva Beppe, tu sei un ignorantone. Lui era il “maestrone”».
Ti pesa o imbarazza non aver studiato?
«Forse avrei fatto un altro tipo di carriera. Sono orgoglioso per quello che ho realizzato, per le centinaia di canzoni che ho scritto. Fiero di mio padre e mia madre che hanno accettato di lasciarmi libero di scegliere. E sono certo che nella vita non avrei potuto fare altro da ciò che ho fatto».
Tuo padre di che cosa si occupava?
«Lavorava in una fornace e ti assicuro che si è fatto un gran mazzo. Mia madre era stagionale in campagna.
Grazie a loro, che hanno pagato le lezioni, sono diventato un musicista. Ma non è stato facile. Ho fatto l’operaio, ho cambiato molti mestieri. A 12 anni suonavo la fisarmonica nelle festine e poi a 14, come ti dicevo, ho fondato il primo gruppo musicale».
Parlavi del successo che i Nomadi hanno avuto con “Dio è morto”.
«Fu abbastanza insperato. Poi ci fu un altro incidente quando Francesco scrisse Canzone per un’amica.
Anche in quel caso incappammo nella censura.
Allora non si poteva dire che una ragazza, giovane e bella, morisse per un incidente sull’autostrada».
Poi incideste “Auschwitz”.
«Ti sbagli. Francesco la passò all’Equipe 84. Ma loro la misero sul lato B del disco, come a dire non credevano molto che avrebbe avuto successo. Noi la incidemmo dopo averla fatta live in un concerto memorabile del 1979 insieme a Guccini. E quello fu un altro momento di grande popolarità per noi».
Più che le punte del successo ha premiato nel vostro impegno la durata. Siete forse il gruppo più longevo.
«Mi viene in mente che la bellezza e l’aggressività che hanno avuto certi gruppi rock non erano i nostri punti di forza. La cosa che ci ha caratterizzato è stata la coerenza. Potevamo sicuramente ottenere di più, ma non saremmo stati noi. Parlo soprattutto per me e per Augusto».
Nel gruppo c’è stato un consistente avvicendamento di musicisti.
«Ho contato una trentina di persone che in questi decenni sono passati dai Nomadi. E ognuno ha dato qualcosa. Soprattutto non ci siamo snaturati. Non ci siamo persi, neppure quando Augusto è morto nel 1992».
Immagino le difficoltà che la sua scomparsa vi ha creato.
«A un certo punto ho pensato che non avesse più senso continuare. Dopo il funerale, furono i fratelli a incitarmi, a dirmi di non lasciare che i Nomadi si sciogliessero».
Come furono gli ultimi mesi di Augusto Daolio?
«Mi verrebbe da dire terribili, ma non è così. Augusto c’è stato sempre, tranne alla fine».
Quando apprendesti che era malato?
«Era il 20 di gennaio. Mi chiamò la sua compagna.Preoccupata perché da qualche giorno Augusto aveva un fortissimo mal di testa che non lo faceva dormire. Lo portammo in ospedale per capire cosa avesse. E dopo una serie di accertamenti, uscì un infermiere che scuotendo il capo disse che c’era qualcosa che non andava. Non aggiunse altro. Poi arrivò il medico a spiegarci che la situazione era complicata e che lo avrebbero trattenuto quella notte e forse quella dopo».
Augusto come reagì?
«Voleva tornarsene a casa, ma noi gli dicemmo che si era preso una polmonite. In realtà era un tumore.
Inoperabile. Con metastasi alla testa».
Glielo diceste?
«Che senso aveva dirglielo? Quando lo rimandarono a casa, il medico si raccomandò che non facesse sforzi e soprattutto non fosse troppo coinvolto emotivamente. Augusto tornò sul palco. Era la sua vita. Il palco gli dava energia. Poi accadde un altro episodio. Dante, il bassista del gruppo e grande amico, morì in un incidente stradale. Era maggio. Da quel momento iniziò la discesa di Augusto».
Smise di partecipare agli spettacoli?
«Andava avanti a fatica. Ma voleva esserci. Ricordo che d’estate si esibiva avvolto da una grande sciarpa rossa. Aveva sempre freddo. L’ultima volta che salì sul palco fu verso la fine di settembre. Andammo asuonare in Calabria. Ma quella sera non riuscì a cantare. Ebbe un attacco di epilessia. Non stava in piedi. Lo tenevo tra le braccia e a fatica tornammo alla macchina. Le ultime due settimane le trascorremmo a Novellara».
Che cosa facevate?
«Niente, si parlava dei vecchi tempi e di quello che avremmo fatto in futuro. Ma nessuno dei due credeva davvero che quel futuro era lì ad attenderci. Prima mi diceva: “Cantiamo ancora, Beppe. Fino a quando canto, non sento male”. Poi gli venne il desiderio di fare il giro del mondo. Diceva: “Dai Beppe, lo facciamo assieme”. Abitavamo a meno di mezzo chilometro. Un paio di volte venne da me. Per il resto ero io che andavo da lui. Poi, fui avvertito che la fine era prossima. Andai da lui alle cinque del mattino. Lo tenni tra le braccia. Finì così: all’alba del 7 ottobre».
Cosa ti è restato di lui?
«Dopo la sua morte c’è stata la santificazione di Augusto. Ma era come noi. Gli piaceva scherzare, amare, primeggiare. Aveva i suoi difetti. Come tutti.
Però mai avrebbe rinunciato al lavoro con il gruppo. I Nomadi erano stati la sua vita d’artista».
E che artista è stato?
«Grande voce, grande capacità di mangiarsi il palco.
Pochi sanno che fin da giovane anni dipingeva. I suoi quadri sono niente male. Anche in quel casomostrava talento. Io ne ho alcuni che tengo in casa. Mi piacciono. Mi fanno ancora pensare a lui. Ho preso a viaggiare seriamente solo da quando è morto. E ripenso a quell’album che facemmo nel 1995, Lungo le vie del vento. So che bisogna andare come vagabondi. Ma non mi bastava e allora mi sono dato degli scopi. Ho pensato che il vento ha bisogno di una meta».
E questa meta cosa dice?
«Parla di bambini, di fame e di solidarietà. Non voglio conoscere i luoghi, voglio conoscere le persone e se soffrono portar loro qualche aiuto. Non sono un missionario, sono un vecchio cattolico, un peccatore che però non crede di aver fatto molti errori nella vita. E ho imparato molte cose, anche se non ho studiato. Ho imparato che è più importante commuoversi per le piccole cose che non per le grandi. Ho imparato che non si vive in eterno e ci sarà un momento anche per me in cui dovrò scendere dal palco. Ho imparato a fidarmi della gente più di quanto immaginassi. Ho imparato che niente ti viene dato gratis, devi meritarle certe cose, ma ho anche imparato che dare senza necessariamente aspettarsi qualcosa in cambio è una bellissima sensazione. Ne ho fatta di strada e sono ancora in cammino».