Robinson, 7 aprile 2023
Rileggere Giuliano Scabia
Grande drammaturgo viene ricordato soprattutto per l’equino alto quattro metri realizzato insieme ai malati psichiatrici di Trieste Amico di Luigi Nono e Calvino, autore di testi per Lisetta Carmi
Nel maggio di due anni fa se ne è andato Giuliano Scabia. Il suo nome probabilmente è poco conosciuto al grande pubblico, eppure questo poeta, scrittore, teatrante, animatore, mago, entità amorosa indefinita e indefinibile, è stato una delle figure più importanti della letteratura del secondo dopoguerra. Chi l’ha incontrato sulla sua strada non l’ha più dimenticato per la carica inventiva, la gioia e la raffinatezza della sua arte. Il suo nome è legato a Marco Cavallo, il personaggio del colore del cielo alto quattro metri che nel 1973 Scabia e Vittorio Basaglia costruirono insieme ai ricoverati del manicomio di Trieste, la cui uscita dai padiglioni determinò la rottura delle barriere che tenevano separati i matti dal resto della città. Scabia ha inventato quella che oggi si chiama “animazione teatrale”; e se non proprio inventata, certamente l’ha ricreata trasformandola in un’esperienza di libertà e d’invenzione che continua ancora oggi a produrre laboratori nelle scuole, nei quartiere, ovunque il teatro non è solo una messa in scena creata da attori professionisti, ma un modo per liberare il corpo e insieme la mente.
In una vecchia fotografia si scorge Scabia accanto a Luigi Nono e Italo Calvino, a cena dopo l’esecuzione dell’opera La fabbrica illuminata,musica di Nono e testo di Scabia; di fronte a loro siedono Jean Paul Sartre e Rossana Rossanda: è il 1964 e illavoro, rifiutato dalla Rai, è stato appena eseguito al Festival di Musica contemporanea della Biennale di Venezia. Lo stesso anno il giovane poeta padovano è invitato da Lisetta Carmi a scrivere i commenti alle fotografie raccolte inGenova Porto dedicato ai camalli della città ligure. Autore politico sin dal suo esordio, all’inizio degli anni Settanta, dopo che un suo testo è stato rifiutato dai teatri dell’Emilia- Romagna, Scabia appare in bicicletta a fianco di un trattore che traina un carro carico di ragazzi e ragazze della scuola media di Sissa: “Teatro dei burattini”. Cosa ci fa questo poeta sovversivo in un paesino in provincia di Parma? Ha aperto un nuovo capitolo del proprio lavoro dopo le esperienze con i registi della neoavanguardia teatrale a Torino nei quartieri periferici. Ha abbandonato la strada asfaltata del teatro classico, e anche quella dissestata del teatro alternativo, per percorrere le strade bianche e i tratturi di campagna. Come racconta Massimo Marino in Il Poeta d’oro (La casa Usher), vincitore di un recente Premio Ubu, la strada percorsa da questo autore rappresenta un elemento di grande originalità non solo nell’ambito italiano, ma anche in quello internazionale. Scabia è stato negli anni Settanta professore di Drammaturgia 2 al DAMS di Bologna, dove ha aperto un laboratorio d’insegnamento unico. Insieme a Gianni Celati, suo compagno di strada lungo le rive del Po nel 1975, il Poeta d’oro è uno dei maestri segreti della nuova letteratura italiana, quella che, pur ispirandosi ai maggiori della fantasia e dell’immaginazione come Italo Calvino e Giorgio Manganelli, s’è trovato ad agire in un contesto completamente diverso. Anagraficamente più giovane di loro d’oltre un decennio, si è trovato sbalzato in un paesaggio di mille anni dopo. L’immersione che Scabia ha fatto nella cultura popolare, nelle montagne degli Appennini e lungo i sentieri della Valle Padana, rende manifesto che a partire dalla fine degli anni Settanta siamo entrati in un’epoca di sradicamento generale. La ricerca di radici cui ancorare la propria identità era, come ha scritto Celati, «una promessa patetica e falsissima» che mandava in soffitta i concetti gramsciani, e di lì a poco sarebbe stata patrimonio della destra politica.
Per quanto sembri impossibile vivere senza un’identità, Scabia e Celati hanno mostrato con la loro letteratura, con il teatro e la poesia, che la nostra condizione è quella di persone in continuo transito da un luogo all’altro, senza più nessuna possibilità d’abitare stabilmente uno spazio proprio, fosse anche quello d’origine o una piccola patria inventata. Come mostra il ricchissimo libro di Marino, biografia letteraria e insieme guida al cammino di Scabia, il lavoro del Poeta d’oro non è mai una verifica delle cose concrete realizzate, sigillo di garanzia d’esistenza senza cui non sappiamo vivere, bensì la proposta della necessità ultimativa delle visioni, «che sono sempre cose indeterminate» (Celati). Il tema della visione è la chiave per entrare nel ricchissimo mondo di Scabia – si veda la bibliografia finale dei suoi libri realizzati con editori come Einaudi o stampati in proprio –, un mondo che pensa il teatro privo di un luogo stabile dove apparire, fuori dai luoghi del professionismo, per quanto Scabia abbia lavorato con alcuni dei più bravi attori della seconda metà del Novecento. La sua poesia non confida più nella capacità di produrre programmi estetici e culturali in cui le immagini «possono sciogliere le nostre rigidezze moderne»; i suoi luoghi sono prati, gli alberi biforcuti, i terreni vaghi, le stanze d’un vecchio bar. Nel 1977 a Bologna, mentre i carrarmati di Cossiga presidiavano la cittadella del comunismo contestato dai padri della futura fluidità, tardoadolescenti rissosi, fieri e divertiti, Scabia faceva volare le sue mongolfiere con il gruppo di Drammaturgia 2. Subito dopo travestito da Diavolo, legato strettamente con un cordone all’Angelo musicante (Aldo Sisillo), ha percorso le strade dell’Italia minore fino a che un infarto non l’ha fermato e riportato alla sua amata scrittura. Nell’ultimo periodo s’era trasformato in un romanziere, autore di due cicli narrativi, il secondo dei quali, Nane Oca (Einaudi), è uno dei libri ancora da scoprire per capire qualcosa del confuso mondo in cui viviamo.