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 2023  aprile 07 Venerdì calendario

Intervista a Luigi Lo Cascio


Se dici Lo Cascio viene subito in mente il suo esordio, 23 anni fa, nei Cento passi, lo stupendo film di Marco Tullio Giordana sulla vita coraggiosa e tragica di Peppino Impastato. Sono seguiti una quarantina di altri film, tv, teatro in cui l’attore palermitano, con il suo corpo minuto e il viso aguzzo è capace di incarnarsi in qualsiasi personaggio. Fragile o carnefice, amoroso ferito o seduttore, comico o tragico, irsuto o glabro, siciliano o emiliano (come nell’ultimo Delta appena uscito). Interprete delle parole di Ionesco e Kafka, Hölderlin e Cristina Comencini, coltiva a sua volta un talento sorprendente anche nel silenzio della scrittura. Oltre a vari testi teatrali, ha pubblicato nel 2018 il romanzo Ogni ricordo un fiore, che attraverso il protagonista, Paride, rifletteva con ironia e maestria sul tormento della scrittura. Il personaggio infatti, rileggeva mentalmente gli oltre duecento tentativi di romanzi rimasti incompiuti dopo l’incipit. Ognuno diverso per stile e genere, tutti accomunati dalla simbiosi fortissima di vita e scrittura. Adesso è arrivato un nuovo libro.
Ormai lei è scrittore recidivo… recitare e scrivere vanno d’accordo?
«Le due cose sono nate insieme. Ho cominciato a scrivere mentre studiavo recitazione. Poesie, appunti, testi teatrali. Man mano che imparavo a usare la voce mi sentivo crescere dentro l’esigenza della scrittura. All’inizio era qualcosa di spontaneo, ma frammentario. Poi la cosa, diciamo si è fatta seria. Non passa giorno che non scriva almeno un rigo. È un laboratorio di comprensione delle cose che mi capitano. Un sogno. Un incontro. Un impulso».
Il fatto che lei sia un attore famoso porta al suo libro un pregiudizio positivo o negativo?
«È un po’ come quando si dice “figlio d’arte”. C’è grande attenzione, ma anche grande diffidenza. Perciò sono molto solidale con i figli d’arte perché ogni volta devono compiere un lungo percorso per rimuovere le aspettative, le invidie, i giudizi affrettati, i paragoni».
Che cosa succede nel caso dell’attore che scrive?
«Alle presentazioni arriva sempre la fatidica domanda “perché scrivi?”, sottintendendo “Hai già un riconoscimento, che bisogno c’era di invadere un campo che non è il tuo? Come se l’attore non potesse scrivere. Ma che ha meno di un chimico? Un ingegnere? Un assicuratore? L’attore dovrebbe essere quello che stranisce meno. Dato che frequenta così tanto e intensamente la parola, ci si dovrebbe stupire del contrario: perché sono così pochi gli attori che scrivono?».
A scuola che studente era?
«Una specie di secchione. Le interrogazioni erano performance, cercavo di strabiliare, perché sapevo tutto, anche la notarella a piè di pagina. Ho preso 60 alla maturità classica portando italiano e filosofia, però, paradossalmente, non amavo affatto la lettura. Anzi, a parte i libri di testo, gli autori obbligatori, non leggevo nulla. Come se il tempo dei libri fosse separato dal tempo della vita, un’occupazione culturale un po’ posticcia. Tant’è che finito il liceo ho dimenticato tutto».
Eppure leggendo i suoi libri si ha l’idea di una scrittura colta, intrisa di letture…
«Sono un lettore tardivo. Ho scoperto il piacere, anzi, l’amore trascinante, insieme alla recitazione. Dovendo assorbire un testo, trasmetterlo, capirlo, la diffidenza verso la lettura è finita. Ma è abbastanza ovvio, perché studiando recitazione hai a che fare con i giganti della letteratura universale. Come fai a restare indifferente con Shakespeare o Ionesco?».
Chi l’ha presa per mano?
«Pirandello mi ha segnato parecchio. Poi Gadda, Testori, Savinio. Landolfi. La poesia di Campana e Luzi. Il magnifico Kafka, capace di penetrare con ironia nell’assurdità della condizione umana. La nascita della tragedia di Nietzsche. Platone. A questo proposito, è stato bello sapere che anche Pasolini fece lo stesso percorso. Scoprì i Dialoghi platonici mentre era costretto a letto da un’ulcera, e gli scoppiò il bubbone del teatro. Un altro autore fondamentale è Calvino, letto in maniera pressoché furiosa. Lo vedevo come un faro per avvicinarsi alla chiarezza. Alla fantasia. Alla leggerezza».
Da piccolino che cosa leggeva?
«Niente. Un disastro. Solo Il Giornalino. Era il fumetto cattolico che la nonna mi portava tornando dalla messa. Asterix, Lucky Luke e i Dalton. Poi sono diventato un accanito frequentatore di Zagor, Tex, Blek, il comandante Mark, Capitan Miki. Libri zero. Di solito ciò che terrorizza nei traslochi sono gli scatoloni dei libri. Beh, io quando mi sono trasferito dalla Sicilia a Roma, a 22 anni, possedevo solo due libri. Leggiucchiati appena e senza entusiasmo. 1984 di Orwell. E Il Gattopardo».
Adesso invece i libri sono importanti nella geografia della casa?
«Beh sì. La maggior parte stanno nella stanza dove lavoro. Ma in realtà si inseguono per tutta la casa. I miei, si uniscono a quelli di mia moglie, laureata in filosofia, e a quelli per bambini, perché ho due figli, di 8 e 10 anni».
Legge libri ai suoi figli?
«La lettura ad alta voce prima di andare a letto è un appuntamento inderogabile. Ora è la “fase Harry Potter”. Siamo arrivati al quinto volume. Leggiamo anche le fiabe siciliane trascritte in italiano da Pitrè e ovviamente quelle di Calvino. Quando rincaso la sera ci tengo molto a questo rito. È un tempo bello per tutti noi. C’è l’ascolto, le domande, la condivisione».
Quando legge ai suoi figli cerca di essere papà, o prevale l’attore?
«Le due cose non si escludono. Se un papà è un pilota, significa che accompagna i figlia a scuola diversamente? Semplicemente guida l’auto meglio. Ho una tale dimestichezza con la lettura ad alta voce che… Insomma, i miei pargoletti hanno avuto un gran culo ad ritrovarsi un padre attore! Spero che un giorno se ne rendano conto. Tra l’altro, ironia della sorte, nella Meglio gioventù e in altri film ci sono scene in cui leggo ai bambini e devo far finta di non essere bravo. Di non essere attore. Di essere un papà normale. Però è impossibile, se devo leggere un testo lo leggo. Cerco di farlo vivere».
Sua madre le leggeva libri da piccolo?
«Purtroppo no. Ma non per colpa sua. Insegnava lontano da Palermo. Doveva prendere la corriera prestissimo al mattino e si allevava cinque figli. Poveraccia, tornava al pomeriggio distrutta. Mio padre era chimico. E anche lui rientrava stanco dal lavoro. Da quando sono diventato padre, li capisco, perché finisco le giornate stremato. Tutti guardano le serie. Io invece crollo nel sonno alle dieci di sera.
Chi era il “cuntista” della famiglia?
«Mia nonna. Una facondia straordinaria. Ma alle favole preferiva la vita vera. Era una maestra. Aveva avuto un rapporto brutto con il padre, e si era trasferita con la mamma a Tripoli. Ci raccontava le sue avventure di donna, capofamiglia, nell’Africa coloniale. Poi c’era lo zio Mario, uno psichiatra, fratello di Gigi Burruano, l’attore, che nei Cento passi interpretava il padre di Peppino Impastato. Come tutti i medici di un tempo, che purtroppo stanno scomparendo, era un formidabile umanista. Conosceva la Divina commedia a memoria, recitava Leopardi, Alfieri, Pirandello, la mitteleuropa di Schnitzler, Kraus, Musil. Credeva che per curare il corpo, o la mente, bisognasse avere una grande passione per l’Uomo. Ogni giorno veniva a trovare la nonna, che viveva con noi, e raccontava i libri. Ci incantava».
Oltre ad aver scritto un libro di racconti fa l’elogio di questo genere negletto delle nostre lettere. Come mai?
«Il racconto possiede enormi vantaggi. In una storia breve lo scrittore può decidere qual è il livello di realtà, il livello di verosimiglianza da adottare. Che una capra parli con un uomo, o che un microbo si innamori, in una novella è plausibile. Nel romanzo, lo sarebbe molto meno. Il grande vantaggio della narrativa breve è l’intensità della scrittura che non cede mai. Il racconto è un amico discreto: in questa modernità accelerata e frenetica dove ci sembra di essere sempre incalzati da scadenze, impegni, frenesie, richiede poco tempo d’attenzione, in cambio di enormi benefici per l’animo e la fantasia».
Microbi, insetti, animali: nei suoi racconti diventano protagonisti parlanti tutte le creature dell’universo. Perché?
«Perché l’Uomo è talmente concentrato su di sé che non si accorge di tutte le altre forme di vita presenti in natura. Che avrebbero, forse, tanto da insegnarci. Maeterlinck diceva “Se noi fossimo stati generosi quanto le formiche, saremmo in poco tempo scomparsi”. Aveva ragione. Ci manca la loro incoscienza cosmica, il brivido di un dio comune in cui credere davvero, e soprattutto l’altruismo. Il racconto breve, come la favola, moltiplica le possibilità dei personaggi. In un racconto persino le pietre possono parlare. Ed è bello ascoltarle. Sagge come solo i tempi dilatati della geologia possono permettersi di essere».
Rende simpatiche persino le mosche, di solito considerate alquanto moleste.
«Mi ha sempre colpito la frase di Wittgenstein: la filosofia serve a fare uscire una mosca dalla bottiglia. La mosca è la prova cruciale per gli animalisti. Se il cosmo è animato, la vita va difesa a tutti i livelli, non solo cani, gatti, uccelli, ma anche mosche e zanzare. Mi piaceva l’idea di un contatto con l’uomo in cui la mosca diventa effettivamente pensante. Parlante. Il mio racconto, La mosca sul divano, è quasi una storia d’amore, tra un uomo nevrastenico, distratto, efferato e una fragile, paziente, saggissima mosca. Se potessimo ascoltare le parole degli insetti, beh credo che saremmo molto turbati dalle sofferenze che patiscono quegli esserini che condividono questo pianeta con noi. E visti dalla luna, o da un dio lontano, sono insignificantemente piccoli, quanto noi».
Come si comporta con le mosche?
«Cerco di non farle entrare in casa. Sono tentato di prendere la racchettina. Ma dopo aver scritto il racconto sono molto più tollerante. Anche con le formiche. Me ne sono innamorato dopo aver interpretato il mirmecologo Aldo Braibanti nel Signore delle formiche di Amelio. Scorrazzano liberamente per la cucina, si arrampicano nella dispensa, entrano ed escono dal pane con grande disagio degli amici che vengono a trovarci». —